Regia di Liao Ming-yi vedi scheda film
Far East Film Festival 22.
«Non cambierà nulla… Non cambierà nulla».
Eppure tutto cambia, si evolve, si rinnova, si riscrive.
Muta il legame; cambia lui, cambia lei, cambia la dote di disturbi ossessivo-compulsivi, cambia il formato di risoluzione video, cambia il registro, cambia la storia.
I toni, prima sull’allegro andante – d’un incontro grazioso e un po’ folle tra esseri erranti, sempre soli e al mondo alienati, affini per la natura “anormale” della loro condizione – trasfigurano in una seria, profonda, finanche cupa, perturbante partitura per disconnessioni delle realtà e squarci del racconto.
Quello che è (stato) e quello che potrebbe essere. Quello che sarà. Forse.
A oscillazioni del sentimento corrispondono visioni (a)simmetriche, ad apparizioni simboliche seguono rivelazioni di prospettiva, nelle sospensioni nel/del presente si riflettono le crepe e i sommovimenti dell’animo che si allontana dall’altro mentre cerca sé stesso: un bivio importante talvolta trascende nella creazione di una versione o dell’altra.
O di un’altra ancora.
Fino alla deviazione (im)possibile, sullo slancio di proiezioni cangianti per frammenti di verità rimossi oppure mal interpretati oppure mai esistiti: allora si può forse tornare alla biforcazione, a quando tutto è cambiato (se è cambiato), come ultimo atto d’amore, come un’istantanea fissata nel tempo e nello spazio e nei ricordi?
La bellezza di I weirDO risiede nel suo farsi scandaglio filmato e in divenire degli anfratti emotivi che celano paure e (bi)sogni e incomprensioni, nel suo farsi corpo figurato sulla cui pelle restano incisi i (di)segni delle ferite e delle imperfezioni, nell'innescare le porte scorrevoli come scarto e messinscena dei tempi e delle esistenze.
Quella del regista e sceneggiatore Liao Ming-yi, già dietro lo script del pregevole At Cafe 6 (coming of age ammantato di vigore giovanile, dolcezza e malinconia; programmato al Far East Film Festival n. 19), è opera capace di ragionare sul presente – nel quale si trova perfettamente e furbamente calato – e sulla sua rappresentazione, ma anche di tracciare un discorso sui rapporti di coppia: il sentimento è destinato inesorabilmente a deteriorarsi nel momento in cui uno dei due cambia/"guarisce" facendo così cessare la condivisione di quella particolare condizione che li aveva fatti incontrare e unire, fino a che non si rimane inghiottiti in loop da una fosca coazione a ripetere (segno di un ulteriore disturbo)?
Tanto i dispositivi narrativi (la malattia – il DOC, disturbo ossessivo compulsivo) quanto quelli formali (il girato su iPhone XS nella prima parte, il 16:9 nella seconda) e i simbolismi (gli "animali guida" che schiudono accessi alternativi) concorrono alla configurazione coerente di un film che, peraltro – stanti talune incertezze di fondo e pause –, oltrepassa in modo brillante le linee elementari ed edificanti della "favoletta pop" nell'era del coronoavirus, subito evocata su locandina e immagini/video promozionali.
Bardati di tutto punto e mascherinati, ossessionati da germi e affetti da fobie patologiche e allergie, come (già) preparati per uno stato pandemico, Po-ching e Ching ispirano immediata simpatia: tutta la prima fase impagina una bizzarra, colorata e assai divertente costruzione di un'unione, che si pensa possa esaurirsi in una qualunque storia tutta carinerie ed equivoci; ma, in una progressione di intensità e profondità crescenti, il ritratto muta, e disorienta.
Al tifo e all'empatia da rom-com si sostituiscono vibrazioni e variazioni in grado di sollecitare altre sensibilità, di passare su altri piani e livelli stratificati di lettura: un flusso di sequenze e immagini e dialoghi che radiografano fratture possibili (e inevitabili?) fino a giungere alla sola copia possibile, quella di un'istantanea ideale di felicità che resta e si imprime negli occhi dello spettatore.
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