Regia di Roberto Faenza vedi scheda film
Era il 1928 quando Eugene O’Neill (bizzoso drammaturgo padre di Oona Chaplin e maestro del teatro naturalista americano) introdusse, in “Strano interludio” il monologo interiore, in voce off, con il quale i personaggi del dramma smentivano, negavano, approfondivano quello che si dicevano apertamente sulla scena. Poi, la voce off ha avuto il suo grande momento cinematografico negli anni del noir e, con il passare dei decenni, insieme al flashback, è tramontata. Oggi, viene ripresa da Roberto Faenza, in “L’amante perduto”, una voce off che riguarda più personaggi, che pare quasi un estremo, didattico tentativo di chiarire azioni e psicologie che il cinema dovrebbe, di per sé, rendere attraverso le immagini, i dialoghi, i silenzi. D’altra parte, tutto “L’amante perduto”, tratto dal romanzo di Abraham B. Yehoshua, sembra un po’ un compitino, nel quale, chissà, forse un eccesso di buona volontà, o magari un’adesione troppo partecipe alla materia, hanno finito per far passare in secondo piano le esigenze della lingua cinematografica. A volte i personaggi parlano troppo e così banalizzano emozioni che dovrebbero essere solo suggerite (Gabriel come proiezione del figlio perduto); altre volte è il tempo dell’azione (come la lunga ricerca del francese) che si snoda confusamente. Un’occasione perduta.
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