Regia di Roger Michell vedi scheda film
Scritto da Richard Curtis, golden boy del cinema britannico degli anni novanta, dopo lo strabordante (e meritato) successo di Quattro matrimoni e un funerale, è un film mediocre ed affascinante. È un racconto vecchio come il mondo, riciclato tante volte e buono per tutte le stagioni perché ci saranno sempre donne attratte da storie d’amore così perfettamente incredibili.
Al centro della scena, due dei divi più desiderabili dell’epoca e perfette icone di fine millennio: da una parte lo stropicciato ed elegante Hugh Grant (che sfrutta il proprio cliché al meglio), dall’altra la sorridentissima e garbata Julia Roberts (a dire il vero al minimo sindacale). Sullo sfondo, un quartiere della Londra più da cartolina possibile.
Un’operazione meramente e fieramente commerciale che contiene molte delle fisime di Curtis in formato da esportazione, ma, tanto per dirne una, il gruppo di amici di Grant è forzatamente bizzarro e senza la potenza dirompente del bellissimo film di Mike Newell. E soprattutto contiene il maggiore difetto dello sceneggiatore Curtis, difetto che in altre occasioni (tipo Love Actually) è croce e delizia, mentre qui è solo croce: il film è insopportabilmente lungo, con una seconda parte che non ha alcun motivo di dilungarsi come qui avviene. Sarebbe potuto stare tranquillamente intorno all’ora e quaranta, ricavandoci in compattezza, brillantezza e fluidità.
L’irresistibile Rhys Ifans non basta e si spera sempre che torni in scena ogni qualvolta il film gira a vuoto. Eppure è diventato un inevitabile classico moderno a cui non si può non volere bene, specialmente per quell’aurea ottimista che lo rende un film tranquillamente rassicurante.
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