Regia di Marco Ferreri vedi scheda film
Marco Ferreri è un regista pessimista, forse il più pessimista tra i cineasti italiani: lui non ipotizza né preconizza l’Apocalisse, ma la dà per scontata. Talvolta la inserisce nella trama come punto di partenza (come in questo Il seme dell’uomo), altre volte, invece, la vede come inevitabile sbocco futuro delle miserevoli vicende umane. In questo senso, Il seme dell’uomo può essere considerato il seguito di Dillinger è morto, e non per caso nel film del 1969 compaiono Annie Girardot, che nel film precedente era stata la cameriera di Michel Piccoli, e la pistola a tamburo dipinta di rosso a pallini bianchi, con la quale il protagonista uccideva la moglie. E la coppia è un altro dei temi su cui si appunta l’analisi tagliente di Ferreri. L’astuto maschio-Giuda, che proditoriamente si propone di propagare il proprio seme fecondando la compagna nel sonno, si contrappone alla femmina animalesca nel difendere quella che ritiene sua proprietà. In questo senso, non sono completamente d’accordo con chi ha ritenuto che il regista abbia dipinto positivamente la figura femminile. La mia impressione è che Ferreri abbia lucidamente accomunato nella condanna il maschio e la femmina, condannandoli a perpetuarsi ed autodistruggersi in continuazione. E direi che se è lecito interpretare il pensiero dell’autore, il suo auspicio sembra essere quello che il seme dell’uomo vada ad inaridirsi per sempre.
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