Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Orchestrate come una partitura musicale, incatenate le une alle altre, si susseguono le citazioni che compongono e illuminano il tessuto narrativo di “Tutto su mia madre”: la Bette Davis di “Eva contro Eva”, la Blanche Dubois di “Un tram che si chiama desiderio”, della quale tutte le protagoniste sembrano ripercorrere lo strazio, la “Fedora” di Billy Wilder (che appare su in alto, nel cimitero, nei panni del transessuale Lola), le “tre ragazze sole in un appartamento vuoto” di “Come sposare un milionario” rievocate dall’irresistibile travestito Agrado. Non vezzi, non strizzate d’occhio incidentali. Pedro Almodovar con questo film ridà vita nella sua forma più pura all’emozione straripante del mélo (i tiri del destino, gli andirivieni, gli intrecci casuali) e la fonde con l’intelligenza ironica della commedia (le donne che chiacchierano e superano morte e dolore con un’istintiva, concreta solidarietà, uno Chanel per non morire, un gesto radicale con il quale cambiare la propria vita). E nell’oscillazione continua tra il riso e il pianto, nel tempismo perfetto con cui il più doloroso dei momenti (la morte del giovane Esteban, l’incontro di Rosa con il padre e il cane, l’apparizione di Lola) viene, non negato, ma come “riconciliato” attraverso il più surreale e ilare dei dialoghi (su tutti, il monologo della Agrado, in teatro, in cui elenca i costi del suo essere femmina), in questa incrollabile tensione emotiva, Almodovar coglie e tesse il succo degli stati d’animo femminili che hanno sempre animato i suoi film: quella teatralità innata, quell’eterno film che le sue protagoniste si proiettano nel cervello e nel cuore, quegli impercettibili ma laceranti passaggi tra cinema e vita, quel “qualcosa” che ha reso plausibili per decenni i più dissennati women’s films e che rende vitalissimi e reali, oggi, i suoi film. Film dove gli uomini sono fantasmi o ricordi, dove esistono solo anime fiammeggianti.
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