Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Il demone cronenberghiano – poco spirituale e molto carnale – inizia il suo percorso insinuandosi nel tranquillo contesto borghese di un complesso residenziale isolato e panoramico. Quell’appartato angolo di mondo è il luogo ideale per fondare, in sordina, la sua prima, pionieristica colonia: l’avanguardia di una nuova specie parassita, che cova sotto la pelle come gli intimi segreti coperti dall’ipocrisia. L’alieno è – come in gran parte della cinematografia di Cronenberg – un cancro cresciuto sul corpo della ricerca scientifica scriteriata, che insegue sogni e partorisce incubi, anche e soprattutto quando crede di accrescere le potenzialità dell’uomo (vedi gli esperimenti telepatici di Scanners) o realizzare la sua felicità (accentuando il piacere del sesso, come in questo film, o moltiplicando il gusto del gioco, come in eXistenZ). Alla base di tutte le catastrofiche derive narrate dal regista canadese sta una sorta di peccato originale: il desiderio di superare i limiti della conoscenza che porta, effettivamente, a sfondare le barriere della normalità, scatenando eventi mostruosi e incontrollabili. In questo modo l’uomo, che aspirava a diventare un superuomo, si ritrova condannato a condividere il suo habitat con creature infernali, la cui malignità è, come la tentazione di Eva, invasiva e contagiosa, e veicolata da individuo a individuo attraverso i meccanismi dei desideri primordiali. Il principio della voracità che, trasmettendosi, dà luogo ad una reazione a catena, è quello su cui si fonda il vampirismo e che attraversa tutta la storia del cinema, comparendo in pietre miliari del genere, come L’ultimo uomo della Terra (1963) di Ubaldo Ragona o La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero. Cronenberg, in Shivers, immerge questo classico motivo dell’horror nell’ambiente asfittico di un grattacielo che si trasforma, poco a poco, in un alveare popolato di esseri mutanti, in cui lo spazio vitale dei superstiti sani si riduce sempre più. L’effetto angosciante prodotto dal luogo chiuso e labirintico, usato come amplificatore del terrore, è, di fatto, un elemento moderno, che viene sempre più insistentemente rivisitato dal cinema contemporaneo, sia nella filmografia d’autore, sia nel filone commerciale: gli esempi, in tal senso, si sprecano, basti pensare a REC, Saw, Paranormal Activity e La horde, giusto per citare i casi più noti e recenti. La struttura di questi film, che oggi viene spontaneo ricondurre alla cultura dei videogame, trova, in realtà, un precedente in quest’opera del lontano 1975: un modello che anticipa le dinamiche degli attuali giochi di ruolo, con pedine dalla natura variabile, costrette a muoversi in un circuito di stanze pullulanti di nemici e trabocchetti. Tuttavia, l’aspetto maggiormente innovatore della poetica cronenberghiana – già manifestato nei suoi lungometraggi giovanili – è l’impegno a raccontare l’orrore secondo una prospettiva analitica, che, come in uno studio epidemiologico, segue da vicino, e passo dopo passo, l’evoluzione del fenomeno, dalle origini all’esito finale. Ciò comporta, necessariamente, la rinuncia alla suspense, all’effetto sorpresa, allo spavento: lo spettro che spunta all’improvviso, da dietro un angolo buio, viene sostituito da un raccapriccio concreto, preannunciato e prolungato, che si palesa alla luce del sole, e gradualmente si dispiega, con lineare consequenzialità, nel logico sviluppo degli eventi.
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