Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film
Lentamente la jeep attraversa il paesaggio maestoso della campagna del Kurdistan. La strada bianca avvolge con le sue curve gli alberi, le distese di grano, i morbidi picchi, le nuvole, i prati, i sassi, i pochi contadini, quasi smarriti, nello spazio vuoto e solenne. In campo lungo la macchina da presa segue il viaggio e soprattutto le voci delle persone a bordo dell’auto. Arrivano da Teheran e cercano un villaggio isolato. A un bambino che li accompagna a destinazione raccontano, mentendo, che stanno cercando un tesoro nel cimitero, in cima alla collina. Abbas Kiarostami lascia sospeso e non del tutto chiarito il motivo del loro arrivo (un reportage sul funerale della morente?). I viaggiatori misteriosi (vediamo e seguiamo solo il capogruppo) prendono alloggio in una piccola casa dalle finestre e dalle porte azzurre, simile alle altre case rurali che abbiamo imparato a conoscere nei film precedenti. Una vicina aspetta e partorirà il decimo figlio, il bambino incontrato per strada deve preparare gli esami scolastici, la padrona di un modesto e poverissimo bar serve il tè ai clienti, una ragazza munge la mucca in una stalla buia, una donna molto vecchia, protetta dalle mura della sua casa, sta morendo. I giorni, lunghi e quieti, passano scanditi dalle telefonate sul cellulare che costringono il protagonista a raggiungere, per cinque o sei volte, la cima della collina prima di poter parlare con il suo interlocutore, dalla ricerca delle fragole, del latte fresco, dalla consegna del pane, dalle passeggiate tra le case di fango e pietra, dai colloqui con un uomo che scava una buca nel cimitero, da un bellissimo giro in motocicletta con il medico di quell’umanità congelata nel tempo. Il regista, al suo decimo lungometraggio, depura il suo cinema, azzera l’intreccio, dilata il tempo e fissa le pietre, le rughe, le spighe, le fronde. Ribadisce la sua sfiducia nell’ellissi narrativa. Esalta la sua vena contemplativa e il suo straordinario gusto fotografico.
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