Regia di François Truffaut vedi scheda film
In questi tempi difficili dove la pandemia costringe a dover per forza di cose ridurre i contatti sociali, nonchè obbliga i governi mondiali a dover chiudere o comunque limitare gli accessi ai luoghi di ritrovo, L'ultimo metrò di Francois Truffaut (1980), acquisisce un'ulteriore lettura, che lo rende un qualcosa di più di un film della copiosa produzione francese sulla resistenza all'occupante nazista, per porsi come un supremo sostenitore del "Show Must Go On", ma non nell'accezione infelice di stampo capitalistico-monetaria che i Queen hanno lasciato nell'immaginario collettivo, intesa come sfruttamento fino all'ultima goccia dell'arte e dello spettacolo pur in presenza in eventi che richiederebbero una pausa, per una seria riflessione delle priorità del momento (la stassa band d'altronde a mani basse sfrutterà la voce del suo leader Freddy Mercury anche dopo il suo trapasso, tramite il mortifero disco Made in Heaven), ma Truffaut intende il concetto declinato in una chiave di autentica "resistenza" contro la barbarie dei tempi che vorrebbe invece le persone occupate in altre cose, poichè l'arte è al tempo stesso cultura, ma anche identità e memoria di un popolo, nel pieno della seconda guerra mondiale e dopo 2 anni di occupazione tedesca, nel 1942 pur tra molte privazioni e sacrifici, il popolo di Parigi continua ad affollare il teatro Montmatre, gestito dall'energica quanto rigorosa Marion Steiner (Catherine Deneuve), dopo che il marito Lucas (Heinz Bennenet) in quanto ebreo si dice sia fuggito dalla Francia; in realtà l'uomo vive nascosto nella cantina del teatro per evitare l'arresto. L'ultimo metrò non è da intendersi quindi solo letteralmente come ultima corsa del trasporto pubblico parigino per via del coprifuoco, quanto piuttosto la necessità sentita e praticata durante l'adolescenza da parte del regista durante gli anni bui dell'occupazione, di non tralasciare uno spazio per sè stessi, che solo l'espressione artistica può riempire come il cinema faceva nel suo caso, anche a costo di andare oltre l'orario delle 23:00 imposto dal coprifuoco.
La Nouvelle Vague oramai è storia trapassata, siamo nella fase oramai più commerciale di un Truffaut che s'è venduto in toto al sistema, ma senza che ciò ne facesse venir meno il suo talento, che emerge già dai fluidi piani sequenza iniziali così ben amalgamati nella sostanza narrativa del corteggiamento insistito di Bernard (Gerard Depardieu) nei confronti di Ariette (Andrea Ferreol) lungo le stradine antistanti del teatro Montmatre, inserito in una Parigi chiaramente idealizzata in un vivido amarcord pittorico di tonalità colorate che ricostruiscono nell'immediatezza l'atmosfera più emotiva che reale dell'epoca, tanto da far fluire in modo naturale la macchina da presa come il sangue all'interno delle arterie del corpo umano, senza mai che la tecnica diventi fine a sè stessa portando lo spettatore al di fuori del film, perchè più interessato al mero artifizio registico che all'immagine restituitaci dalla cinepresa.
La storia rievocata in chiave amarcord con innesti presi da vicende realmente vissute dal cineasta, si fonde con la finzione dello spettacolo teatrale la "Scomparsa" scritto da Lucas e recitato da Marion insieme al talentuoso giovane attore emergente Bernard, nel tentativo di racimolare i soldi necessari per poter mantenere aperto il suo teatro anche innanzi alle avversità dei tempi.
Il trasporto amoroso di cui vive il personaggio di Marion verso quello di Carl interpretato da Bernard nella finzione scenica, diviene replica di un sentimento nelle prove dello spettacolo sino a diventare realtà al di fuori del palcoscenico, portando forti turbamenti d'animo nella donna che vive un'esistenza a metà tra il distacco necessario da tutti in quanto proprietaria del teatro e la necessità di non far sospettare nulla sul nascondiglio del marito, con i sentimenti verso quest'ultimo che mano a mano vengono sempre più logorati sia dall'impossibilità nel poter passare come vorrebbe il tempo con lui, sia dalla necessità di dover esprimere dei sentimenti spontanei e non falsi verso Bernard durante le prove teatrali, con l'imbarazzo che il marito possa equivocare la cosa e sentirsi "soppiantato" da un nuovo rivale amoroso per via del fatto che non possa uscire dal nascondiglio.
In Marion rivive il conflitto melodrammatico tanto caro a Truffaut, anche se declinato in un tono più da commedia drammatica in chiave leggera (anche se Catherine Deneuve che vomita nel cesso poco prima della prima forse era da rendere diversamente il suo essere logorata dalla tensione), rispetto al trasporto ardente ed autodistruttivo degli esordi; l'amore ha necessariamente una componente sia di gioia che di sofferenza, l'equilibrio tra arte e storia è quello che il cineasta cerca di instaurare in Marion inserita nel vertice in un a sorta di triangolo amoroso che vede come vertici di base da un lato Bernard, anch'egli in lotta tra la sua passione per le belle donne, il teatro ed il ruolo di partigiano della resistenza, e dall'altro Lucas, sempre più frustrato perchè represso dal logorio dell'ambiente chiuso e claustrofobico dello scantinato, dove solo il lavoro matto e disperato al servizio dell'arte del copione teatrale lo salva dalla pazzia e dal probabile suicidio. Certo, i tempi di Jules et Jim (1963) sono lontani, così come il microcosmo cinematografico che gravitava intorno alla realizzazione di un film in Effetto Notte (1971) qui non ha lo stessa profondità nè quella poesia in tutti i personaggi acquisendo una chiave più da cinema civile nell'inserto di tolleranza di Marion sulla questione dell'omosessualità; lo sperimentalismo lascia spazio ad un'opera dallo stile più convenzionale, ma con gustose assonanze tra la vita reale e lo spettacolo teatrale, la cui dicotomia viene risolta con un divertente meta-espediente nel quale il cineasta ci tiene a ribadire nuovamente l'amore supremo per il cinema come spettacolo per eccellenza, valorizzato appieno dalla ricostruzione particolareggiata nei dettagli dell'epoca e dalla sontuosa messa in scena, che risplende appieno pur essendo per lo più un film ambientato in interni, i cui spazi ristretti vengono amplificati dall'aura divistica di Depardieu e soprattutto dalla bellissima e stupenda Catherine Deneuve, una dea di altri tempi, riuscendo a fondere nei due caratteri il rigore della resistenza, con la poeticità del trasporto amoroso nonostante le maschere da loro indossate, contribuendo al successo di pubblico del film nelle sale, perchè nell'ora più buia c'è bisogno dell'arte in qualsiasi forma, oggi più che mai.
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