Regia di François Truffaut vedi scheda film
Mi è capitato, più di una volta, di incappare in un "dejà-vu": però qui, ripensando e ripensando, la certezza è fuori discussione: lo vidi per davvero, da piccola. Solo, non lo ricordavo. Tutto mi fu chiaro in una delle ultime scene: Marion va a trovare Bernard all'ospedale, indossando un abito bianco e nero (con una fantasia geometrica, la giacchina invertendo i colori) ed un copricapo estroso, ma in linea con la moda del tempo, che allora, probabilmente undicenne o dodicenne, etichettai ironicamente come "una calzamaglia mal annodata in testa!". Avevo le mie ragioni, comunque. Certi film, hanno il potere di farti sentire a casa subito. Per qualche motivo lo fanno, o meglio, si con-fanno: a noi, ai nostri gusti, alla sensibilità, alle idee. Così è, per me, "L'ultimo metrò"
Tutto si svolge nel 1942, in una Parigi immaginaria stretta fra un paio di viuzze, probabilmente, di Montmartre: il monte dei martiri, allora periferia nord ma centro cultural-naif del divertimento. Per quanto ci si possa divertire in tempo di guerra. Le strade sono scenografie teatrali, ma tanto più reali in quanto buie, scarne, segregate in un mondo fasullo che è quello dell'intrattenimento a ore (il tempo di una rappresentazione) per dimenticare il freddo, la fame, le angherie degli occupanti tedeschi, il dramma dei soldati al fronte e dei deportati: ebrei, omosessuali, oppositori politici. In questo micro-cosmo di paese (ancora oggi, scostandosi dai percorsi più turistici tra la piazza e la chiesa, questo quartiere ha il sapore di un villaggio), nato dalla fantasia e dalla biografia di Truffaut, il sole attorno al quale ruotano vicende e personaggi è, a sua volta, un teatro, un altro, "Montmartre", guarda caso, il nome. Un luogo d'élite dove l' intelligentija crea, ma popolare dove la gente accorre e per pochi franchi gode di un po' di calduccio, della compagnia di conoscenti e non, della identificazione e proiezione che il palcoscenico elargisce generoso. Sempre che l'illuminazione generale regga, la sirena dell'allarme aereo non suoni, e comunque, sempre prima che il coprifuoco sopraggiunga, e l'ultimo metrò, appunto, parta. Ma non è certo un film politico, questo: la Seconda Guerra Mondiale resta sullo sfondo. Tratteggiato appena, con precisione ed intensità, ma pur sempre un pretesto. E' invece, fortemente, un film di relazioni. E di emozioni intellettuali. Marion Steiner, attrice dal passato cinematografico, ha preso in mano la gestione del teatro di cui il marito era direttore: egli, di origini ebraiche, è infatti emigrato. O scappato, come la si voglia mettere. In verità, si scopre prestissimo, si nasconde nella cantina sottostante il palco. Dal suo nascondiglio assiste ai preparativi per un nuovo spettacolo: i mezzi sono pochi, ma Marion può contare su forza d'animo ed amici fidati: Jean Loup regista improvvisato ma volenteroso, uomo accorto ed intelligente; Arlette costumista di spirito; Raymond tutto fare. Al gruppo si aggiunge Bernard, attore di talento cristallino. Tra critici ignoranti e "politici" (che in privato lodano e in pubblico screditano: su basi razziali più che mai), sbalzi di umore del marito capriccioso abituato ad essere al centro del mondo (ed ora più che mai segregato al centro della terra!), bisticci d'amore e necessità di diplomazia con gli occupanti: un occhio alla assegnazione ai posti in sala ed al copione e l'altro alla minestra che cuoce e al prosciutto acquistato al mercato nero, Marion si destreggia con indubbio successo. Ma è tutto veramente come sembra? E' palese, quanto palese può essere un segreto, che tutti hanno qualcosa da nascondere. Tutti in qualche modo recitano: sul palco e sul palcoscenico della vita. Il teatro dentro di noi, e fuori di noi, metafora ed essenza anche della poetica del regista: ricordi, malinconia, tenerezza, dolore e leggerezza insieme. Truffaut insomma, forse già "invecchiato" - se non anagraficamente, artisticamente - ma pur sempre lui.
Un grande Truffaut dirige un film grandemente imperfetto: i ritmi sono incostanti (tra l'altro, 133 minuti decisamente troppi) a volte ci si perde nei meandri della sceneggiatura come a gigioneggiare sul nulla. Alcuni attori sono completamente fuori parte, come Heinz Bennett, altri recitano al minimo sindacale delle proprie possibilità come una troppo statica Deneuve (va bene che la staticità e la freddezza sono delle sue caratteristiche peculiari ma qui mi pare si scada nella insufficienza). Sanguigno Gerard Depardieu, azzeccata (magari un po' banale, ma perdonatissima) la colonna sonora, nella quale spicca "Mon amant de Saint-Jean" La scenografia è discreta: andava più curata. Così come il sonoro. La fotografia, un po' "piatta" (con meno sfumature di luce di quanto ci si sarebbe aspettati). Il montaggio, all'inizio non entusiasmante, mi pare in miglioramento sul finale. Il finale, il finale ... è proprio quando la nave sembrerebbe imbarcare acqua che la zampata del genio la riporta pienamente a galla, facendola rientrare trionfante in porto: il finale, veramente, "salva" il film e riesce a colorarlo di quella ambiguità affascinante che è proprio il tratto distintivo dell'opera. Allo spettatore decidere a quale messa in scena credere, chi può esprimersi sulla "verità" quando di mezzo ci stanno i sentimenti? Nulla è giusto o sbagliato, la vita è solo quello si vive, solo come la si vive.
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