Regia di James Whale vedi scheda film
Visto il successo sia di critica che di pubblico di Frankenstein (1931), la Universal si impegnò sin da subito per dare un seguito alla pellicola ma si trovò, con una certa sorpresa, a confrontarsi con il diniego di uno dei protagonisti principali del suo successo, ovvero proprio il regista James Whale.
Il regista infatti era assolutamente convinto di aver sfruttato tutto il potenziale della storia e che questa non aveva ormai più niente di nuovo da dire, arrivando di conseguenza a rifiutare più volte le varie versioni dello script che gli venivano proposte, e a ritardare in questo modo la produzione di un possibile seguito.
Ma proprio il successo della prima pellicola, ascrivibile in buona parte al suo regista, e nonostante le continue richieste di Whale per accontentarlo, costrinsero la Paramount, alla fine, a cedere e a dare carta bianca al regista britannico praticamente su tutto, dalla storia ai collaborati fino anche alla scelta del cast, di cui Whale fu molto intransigente, ma che permise alla pellicola di presenziare nomi difficilmente ascrivibili a una produzione dell’orrore.
A Boris Karloff e Colin Clive, confermatissimi dal precedente capitolo, e a Valerie Hobson, che sostituì nel ruolo di Elisabeth Mae Clark (che ebbe diversi problemi sul set con Karloff e preferì non tornare) si aggiunsero Ernest Thesinger nel ruolo del Prof. Pretorius, Elsa Lanchester per la sposa, il ritorno di Dwight Frye in un altro ruolo e, direttamente dal set de L’uomo invisibile, la comica Uma O’Connor e poi Gavin Gordon, E.E. Clive, Douglas Walton e O.P. Heggie.
La lavorazione del film fu piuttosto complicata, iniziata già in ritardo per l’imposizione di Whale di aspettare che l’attore Oliver Peters Heggie fosse disponibile per il ruolo dell’eremita cieco, e quindi, una volta sul set, per gli infortuni sia di Boris Karloff che di Colin Clive che costrinsero il regista a lunghe pause o a girare, quando possibile, soltanto con le controfigure.
Inoltre la produzione fu accompagnata dalle preventive preoccupazioni dell’Ufficio Hays che, attraverso il suo rappresentante Joe Breen, si adoperò, oltre che a censurare qualsiasi aspetto del film contrario al pubblico decoro, anche nel controllare direttamente lo sviluppo della sceneggiatura stessa onde eliminare qualsiasi elemento di “divinazione” della figura di Frankenstein, com’è invece capitato nel precedente capitolo.
Una preoccupazione tale a riguardo che ai censori dell’epoca sfuggirono in realtà sia la latente omosessualità del dottor Pretorius, oltre a qualche altro leggero ammiccamento alla necrofilia, che la prominente scollatura di Elsa Lanchester nel ruolo di Mary Shelley.
Anche il finale fu cambiato per volere dei produttori che insistettero per un lieto fine e quindi per la sopravvivenza sia di Elisabeth che del Dottor Frankenstein,, che doveva invece perire nell’esplosione della torre insieme alla sua creatura mentre in una delle primissime sceneggiature anche la stessa Elisabeth dopo essere stata rapita doveva venire uccisa dal mostro affinchè il suo cuore fosse trapiantato nel nuovo corpo artificiale.
Seconda pellicola della trilogia Universal che si concluderà,nel 1939 con Il Figlio di Frankestein, ma per la regia di Rowland V. Lee, La sposa di Frankenstein è quasi totalmente svincolato dal riferimento letterario originale permettendo a Whale (e a uno stuolo di sceneggiatori che si avvicendarono sulla storia) di realizzare una pellicola che, nato per ripeterne il successo commerciale del primo, finisce per approfondirne ulteriormente i temi, sia quelli non pienamente elaborati nella prima pellicola o quelli appena accennati nel romanzo della Shelley come appunto la creazione di una sposa per la creatura.
Nel romanzo infatti Frankenstein la distrugge prima ancora di darle vita mentre nel film invece viene convinto da un suo ex professore, il folle dottor Pretorius, a lavorare con lui nel creare una compagna per il mostro e a dare inizio così a una nuova razza di uomini artificiali di cui la sua creatura, novello Adamo, è soltanto il primo.
L’idea per la sposa invece si basa principalmente sulla Maria del film Metropolis (1927) di Fritz Lang, tanto che lo stesso Whale aveva pensato di chiamare proprio Brigitte Helm a interpretarne il ruolo.
Alla fine fu invece interpreta mirabilmente da Elsa Lanchester, interprete anche di Mary Shelley nella breve introduzione al film, e nonostante il breve tempo in cui appare sullo schermo riesce a rimanere scolpita nella mente degli spettatori, dall’incredibile make-up ed estremamente stilosa nella sua candida tunica bianca, completamente fasciata da bende, come una mummia, e soggetta a continui spasmi, come colpita da improvvise scariche elettriche, come anche dall’iconica acconciatura dei capelli, realizzata ricoprendo con i suoi stessi capelli una gabbia sistemata sopra la testa.
Il sibilo che emette fu un’idea della stessa Lanchester che si ispirò ai versi dei cigni che sentiva durante le sue passeggiate a Regent’s Park.
Anche il “mostro” subisce un’evoluzione psicologica ed emotiva grazie agli incontri, fortuiti e non, con altri “reietti” come gli zingari o l’eremita cieco che, oltre a insegnarli a parlare, gli farà prendere coscienza di sé e degli altri come anche del suo posto nel mondo.
Interpretato nuovamente da Boris Karloff, truccato con lievi variazioni ancora da Jack Pierce, ne vengono accentuati gli aspetti umani rendendolo più consapevole della sua diversità, vittima non più in quanto perseguitato come nel primo film ma perché condannato a rimanere solo per l’eternità, destino che alla fine non accetta autodistruggendosi.
Il risultato finale fu, secondo molti, persino migliore del predecessore nonostante i continui rinvii, di cui la pellicola ne risentii palesemente ma non necessariamente in soli termini negativi, in quanto La Sposa di Frankenstein si rivelò, alla fine, come un apprezzabilissimo fauilleton gotico che, senza disdegnare il suo genere d’appartenenza, mischia sorprendentemente le carte trasformando un’opera di grande impatto stilistico come il precedente Frankenstein in una satira di sofisticata arguzia proprio sul genere hollywodiano appena nato dei “monster-movie” (aspetto questo molto criticato da chi, invece, preferisce il primo film) oltre che dal contributo di una raffinata messinscena di Whale, al trucco ulteriormente migliorato di Jack Pierce e agli effetti speciali di John Fulton, per non parlare poi della bravura di tutti gli interpreti.
Idealmente scandita in tre atti rispettivamente incentrate sulla creatura, su Pretorius e infine sulla moglie del mostro, il film ne propone una nuova rilettura mescolandone gli elementi più orrorifici con la commedia nera pur conservandone l’indole espressionista, adottata da Whale soprattutto nelle ardite prospettive degli interni, nelle luci e nel personaggio del dottor Pretorius, prototipo e icona dello scienziato pazzo come e più del Dottor Frankenstein, megalomane ma affascinante e, a suo modo, carismatico erede del Dottor Caligari e/o addirittura del Nosferatu di Murnau.
Anche l’esperienza di Whale nel teatro ha avuto una forte ascendenza nella pellicola, evidente nella teatralità delle entrate dei suoi protagonisti come nella loro recitazione, sempre molto carica, la predilezione per dei set sontuosi o per i suoi cieli dipinti ma anche dall’altissima qualità scenografica a chiara ispirazione della cinematografia tedesca.
VOTO: 8
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