Regia di Spike Lee vedi scheda film
Da first Spike Lee Netflix joint that came right on time.
Opera ambiziosa, la nuova del regista. Densa (densissima), complessa, (stra)colma di suggestioni, messaggi, riferimenti, citazioni. Un’opera che pare voler dire l’ultima parola su tutta una serie di tematiche affrontate nel corso d'un ormai più che trentennale carriera, forse persino un’opera-mondo, un’opera-testamento, un tentativo di magnum opus, si potrebbe dire.
Tra l’altro “capitata” in un momento che più “giusto” non si può, con l’America scossa dalle ondate di protesta provocate dall’ennesima ingiusta morte d’un afroamericano per mano della polizia sempre fedele al granitico dogma del “prima spara (o soffoca), poi chiedi che succede”.
Quindi, ok, tutto più che giusto, tutto – sulla carta – molto intrigante, decisamente interessante, estremamente attuale. Però, eh, c’è un però. Che dire del risultato finale? Ecco, possiamo dire si dimostri un filino incostante.
Da 5 Bloods appare, difatti, piuttosto auto-indulgente nella durata e piuttosto altalenante in quanto ad efficacia, nonostante s’affermi comunque come un’operazione indubbiamente coraggiosa, impossibile da ignorare e soprattutto capace di suscitare dibattito, riflessione, analisi.
Lo si è già accennato: siamo in presenza di un’opera in una parola attuale, che tuttavia qua e là scivola, tra dialoghi a volte forzati, recitazione un po’ ingessata (l’unico a risaltare veramente è Lindo, come hanno giustamente evidenziato in molti) e risvolti spesso prevedibili (SEMI-SPOILER: due esempi per tutti: la scena della mina e le rivelazioni sul conto di Paul FINE SEMI-SPOILER).
Le citazioni non si rivelano poi sempre riuscitissime, così come le scelte in materia di musica, in certi frangenti quantomeno opinabili (un esempio che riassume bene entrambe le problematiche: l’inserimento della Cavalcata delle Valchirie; che se si adattava benissimo al momento, per così dire, di galvanizzazione generale, necessario in vista del molto umanitario obiettivo di calare la “morte dall’alto”, non pare invece adattarsi altrettanto bene al contesto d’una banale discesa lungo il corso del fiume [e pertanto si rivela una citazione non esattamente brillante, giustificata o palesante granché carica creativa]).
Le poche scene di guerra, inoltre, faticano a coinvolgere, risultano vagamente piatte e un tantino disorientanti (grazie alla genialissima trovata di far interpretare agli stessi anziani attori protagonisti le loro controparti ventenni, senza l’ausilio d’alcun trucco, parrucco o effettuccio).
In aggiunta, il film nel suo complesso talora si fa fin troppo didattico/didascalico, con il messaggio che, perdendo un po’ di vista il cinema, viene letteralmente “sbattuto in faccia” allo spettatore ad ogni nuova occasione a suon di dialoghi puramente espositivi (i quali ad ogni modo, per fortuna, non arrivano ai livelli di certi terrificanti spiegoni finali à la Sherlock [BBC style]).
Insomma, per farla breve, la sensazione è che Lee abbia voluto strafare, inserendo a tutti i costi troppo cose, troppi temi, troppe suggestioni, col risultato di produrre un amalgama finale poco coeso. Ciononostante, benché oscilli tra alti e bassi, il suo non si può certo dire essere un pessimo film, anzi.
Alcuni momenti sono incisivi e potenti, l’alternanza tra diversi rapporti d’aspetto convince e non disturba affatto, la regia è puntuale, la colonna sonora, seppur – come detto – di tanto in tanto a stento adeguata al quadro, risulta nondimeno bella e sicuramente in linea con lo spirito generale del film, lo stesso messaggio è tutto considerato urgente, per nulla banale e in certa misura efficace.
Il film, tra l’altro, parte subito in quarta: si apre con un memorabile squarcio documentaristico e, in particolare, con uno spezzone d’una famosissima intervista ad Alì, in pieno stile Lee.
Affronta diverse questioni che definir spinose par quasi un eufemismo, e in almeno un caso riesce a farlo in maniera davvero “sottile” e arguta: il riferimento è alla breve scena a piedi per le strade di Ho Chi Minh City (ex-Saigon) stipate di McDonald’s, Pizza Hut e KFC: già, perché l’America avrà anche perso il conflitto, ma dal punto di vista economico e “culturale” non ha semplicemente vinto, ma trionfato.
Non le manda giustamente a dire, questo Da 5 Bloods, quando si tratta di affrontare il tema della brutalità di quanto avvenuto, tanto dalla prospettiva degli americani spesso poveri e disagiati reclutati a forza (nel 32% dei casi neri), quanto da quella degli autoctoni aggrediti (anche se le atrocità si estendono ben oltre il famigerato massacro di My Lai…).
Peraltro, nella triste rievocazione d’una pagina così nera della storia del Novecento, d’un tratto sembra quasi di ravvisare un barlume come di rassegnazione (che dal militante Lee non ci si aspettava): che lo spirito rivoltoso dei ‘60 sia andato perso per sempre? Ci si è lasciati prendere nella rete della propaganda? Abbandonando la lotta, per adagiarsi e accontentarsi di tirare avanti con magari di fronte la chimera ben fissa d’una possibile personale “emancipazione” e realizzazione grazie ad un sogno americano che in realtà non è mai esistito? E’ il potere del dollaro “sonante” ad aver ormai vinto e prevalso?
No, non è accettabile. No. Bando al vittimismo, bando alla rassegnazione: ecco che alla fine fa la sua fulminea comparsa la recente ondata del Black Lives Matter. Forse, dopotutto, resta ancora una qualche buona ragione per sperare. Sperare in un futuro migliore. Chi lo sa. Forse.
Intanto, se anche vien difficile porlo tra i migliori diretti dal regista, Da 5 Bloods rimane in ogni caso un film da vedere e meditare, specie in questi nostri tormentati giorni.
“La mia coscienza m’impedisce di sparare ad un fratello, o a della gente dalla pelle più scura, o a delle gente povera e affamata che vive nel fango, per la grande e potente America. E poi sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, né mi hanno mai linciato. Non mi hanno sguinzagliato dietro i cani, né mi hanno privato della mia nazionalità”
- Ali
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