Regia di Amy Seimetz vedi scheda film
Esistenzialismo in dune buggy.
Lista delle cose da fare quando si ha tutta la vita davanti, o quando non ne resta che un soffio:
- Affermare la presenza del proprio corpo immerso nell’ambiente che lo ospita... √
- Percepire coi polpastrelli le venature del legno del parquet... √
- Comunicare: propagare, trasmettere, appestare... √
- Sgranocchiare steli di salicornia... √
- Rassegnarsi... √
L’onda lunga (o impressionante caterva che dir si voglia) post-Y2K dei film “Fine di Mondo” (per un evento conosciuto – naturale e artificiale, umano e alieno, guerre e pandemie, collisioni planetarie e invasioni extraterrestri – o sconosciuto) si è sedimentata e cristallizzata già un decennio fa, con due opere cardine e in gran parte dicotomiche quali “Melancholia” di Lars von Trier e “4:44 Last Day on Earth” di Abel Ferrara, entrambe del 2011, e questo secondo lungometraggio della floridense Amy Seimetz, classe 1981 (“Upstream Color”, “Alien: Covenant”, “the Girlfriend Experience”, “Stranger Things”), dopo l’interessante esordio di quasi dieci anni prima con “Sun Don’t Shine”, sempre con protagonista Kate Lyn Sheil (“Green”, “Kate Plays Christine”, “Buster’s Mal Heart”), è una variazione sul tema proposto dai maestri danese e italo-americano con l’aggiunta del virus semantico in zona “Pontypool” (Bruce McDonald e Tony Burgess, 2008) e “the Flame Alphabet” (Ben Marcus, 2012), là dove il linguaggio non è la malattia (la consapevolezza che l’indomani si morirà), ma tanto la prognosi quanto il vettore di contagio, estremamente virulento: una volta assunta la consapevolezza della propria immediata finitezza, gl’infetti devono assolutamente riversare/sputare addosso al chiunque prossimo (famigliari, amici, sconosciuti) la rivelazione autodiagnosticata rendendoli partecipi della propria condizione e facendoli così al contempo ammalare: il Verbo è (una sentenza di) Morte: muoia l’untore con tutti i filistei, i cananei e i pisani.
Oltre alla già citata protagonista, ottima prova è quella di Jane Adams ("Kansas City", "Happiness", "Eternal Sunshine of the Spotless Mind", "Hung", "All the Light in the Sky", "Always Shine", "Twin Peaks 3 - the Return"), che interpreta un'artista à la Stan Brakhage e ha una scena eros/thanatos à la "Eyes Wide Shut", in un ambulatorio medico in vece che in una chambre verte. Chiudono il cast Chris Messina, Kentucker Audley (co-protag. di "Sun Don't Shine"), Katie Aselton, Tunde Adebimpe, Jennifer Kim, Josh Lucas.
Molto belli i cammei di Michelle Rodriguez (in coppia con Olivia Taylor Dudley) e dei registi Adam Wingard (“Come with me for fun in my buggy!”) e James Benning.
Fotografia: Jay Keitel (anche lui già al lavoro con la regista in “Sun Don’t Shine”). Montaggio: Kate Brokaw. Musiche: Mondo Boys (“Dave Made a Maze”).
Co-prodotto da Justin Benson e Aaron Moorhead ("Resolution", "Spring", "the Endless", "Synchronic").
Il bel design dei titoli di testa e coda è a cura di Teddy Blanks / CHIPS (“Listen Up Philip”, “Black Bear”).
- “Vai a fare un passeggiata, oppure prova a guardare un film.”
- “Un film è un’ora e mezza.”
Gran senso di malessere restituito. A tratti colpisce, e fa un po’ male.
Finale poco convincente, e non perché ambiguo/interrotto/enigmatico/sospeso.
Una gradevole desolazione.
Waste of Time.
* * * (½) ¾
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