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Lucky

Regia di Natasha Kermani vedi scheda film

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La recensione su Lucky

di mck
7 stelle

Le cose stanno semplicemente così.

 

C’è un momento, poco dopo l’inizio del film, in cui l’atmosfera viene delineata alla perfezione: il marito della protagonista, durante una situazione di tensione domestica, le dice una cosa talmente assurda e straniante (non la cito, qui: chiunque, assistendovi, può certamente individuarla quale prima autentica avvisaglia di una cesura fra la realtà e l’alienante anomalia) da risultare - calata in quel contesto - spaventosa, e la musica sottolinea con evidenza il fatto attraverso una distorsione d’archi pizzicati, ed ecco che lo spettatore allora si aspetta una catarsi, si attende che l’uomo scoppi a ridere (per smorzare la tensione ch’è venuta a crearsi causa un elemento esterno alla coppia e alla casa) e le dica che sta scherzando e di stare tranquilla e che adesso cercherà di risolvere il problema prendendo in mano la faccenda in questione, e invece il frangente di assurdità perdura, e sarà così fino al termine della storia, per tutto il film, che proprio in quella circostanza principia col rivelarsi per quello che è, ovvero un’opera-metafora, con tutto il bagaglio e il carico di rischi che corre questo genere di lavori: la reiterazione, lo sfilacciamento, la ripetitività, lo sfrangiarsi, la ridondanza, lo smagliarsi, la replicazione insistita…

 

Brea Grant

Lucky (II) (2020): Brea Grant

 

Ora, occorre ammettere un bias: il mio problema coi film-metafora è che… non li sopporto, e questo “Lucky”, l’opera seconda di Natasha Kermani, dopo l’esordio avvenuto con “Imitation Girl”, interpretata e scritta da Brea Grant (che lo stesso anno sforna la propria seconda prova alla regia e alla sceneggiatura con l’altrettanto interessante “12 Hour Shift” con Angela Bettis, dopo aver debuttato anni prima dietro alla macchina da presa e davanti alla macchina da scrivere con “Best Friends Forever”), è letteralmente la direttrice percorsa da “the Invisible Man” di Leigh Whannell innestata sull’impianto architettonico del “Mother!” di Darren Aronofsky, riscattato da un finale non propriamente uroborico, ma comunque tendente ad infinito, attraverso una coazione a ripetere con variazioni sul tema, che si arrende alla sua stessa evidenza.

“Veniamo attaccate nelle nostre case e nelle case dei nostri amici e nei nostri garage ogni dannato giorno per il resto della nostra vita. Non c’è razionalizzazione e non c’è modo di salvarci. Perciò abìtuati.”

 

Brea Grant

Lucky (II) (2020): Brea Grant

 

Il film potrebbe apparire, ad un’occhiata superficiale, come la mera espansione arty a un’ora e mezza di un utile video di un quarto d’ora caricato su YouTube da un’istruttrice di auto-difesa: in realtà tecnicamente è l’elaborazione inconscia di un incubo lucido sorta durante uno stato di limbo post-aggressione il cui ricalcato difetto peggiore consiste nel non riuscire a contenere il divario fra il pragmatismo della pericolosa contingenza e il bizzarro irreale che persistentemente la penetra ed invade: queste due dicotomiche tipologie narrative si contendono la scena in un continuo tira e molla fino a quando la seconda prevale e prende il sopravvento sulla prima quand’oramai il gioco si è reso evidente da sé: il film non riesce/può/vuole dire certe cose con sottigliezza, perciò da un lato ci va giù pesante riducendo il suo intero discorso allo scheletro di una metafora e dall’altro lo fa spiattellandolo con un grottesco fine a sé stesso (da questo PdV può essere paragonato al recente “Antebellum”, che però si muove meglio lungo gli stilemi e le regole del genere).

“Avevano solo dei piccoli suggerimenti [gentili suggestioni] da proporre basati sul dove il movimento femminista sta puntando in questo momento. Sai, dobbiamo mantenerci al passo coi tempi, stare all’avanguardia [cutting edge]. Vogliono solo che tu incorpori alcuni dei motti e parole chiave a cui il mercato femminile risponde ai giorni nostri… “Latinx”… Quel genere di cose, hai capito, no? Senza contare che questa cosa è facile da incorporare.”

Per contro, questa messa in scena - fotografia di Julia Swain, montaggio di Chris Willett e musiche di Jeremy Zuckerman (“Horse Girl”) - da parte di Natasha Kermani di uno script dell’attrice principale Brea Grant contiene alcuni passaggi - dalle prime battute (la già citata sequenza notturna di home invasion con dialoghi perturbanti) sino alla fine [dal punto di non ritorno della rivelazione, vale a dire la scena “polanskiana” di delirio collettivo con paramedici, poliziotti e assistenti sociali che s’affollano in un malato hellzapoppin’ attorno alla protagonista asfissiandola di domande accavallantisi, passando per la scena della cicatrice sulla spalla della cognata (o quella, sempre con la parente acquisita, al market, con l’interlocutrice che - come anche altri personaggi in altre occasioni - si estranea e recita ciò che il senso comune - che non è il buon senso - ha codificato nel corso del tempo rispetto alla tematica - sì, la tematica! - principale del film) e giungendo - cioè: tornando - là dove tutto è nato, nel parcheggio sotterraneo, qui ed ora abitato da un’infinita teoria di altre donne costantemente inseguite, perseguitate e aggredite in una sorta di riedizione del mito di Prometeo incatenato altrettanto folle, ottusa e violenta] - di sicuro valore.

Inoltre, e può essere tanto un difetto quanto un pregio, ma lo rilevo qui nella sua oggettività, alcuni dialoghi “aiutano a non empatizzare troppo” col carattere principale: la scrittrice di manuali di auto-aiuto, durante un incontro coi suoi lettori, invece di rispondere a una domanda stupida dando all’interlocutrice il beneficio de dubbio (i blog portano via tempo che invece deve essere dedicato alla scrittura dei libri) le dice: “Sì, mi sono presa una pausa da quelli. Ci tornerò, prima o poi. Ma non sono così facili da creare come si potrebbe pensare.”

 


Da notare un piccolo tropo particolare (sinestesia raffigurativa) in un’opera ch’è un singolo grande artificio/schema retorico generale composto da singoli traslati più o meno ben amalgamati e sommati gli uni agli altri e tutti indirizzati all’unico fine: durante l’escalation di effrazioni con conseguenti sempre più “facili” neutralizzazioni dell’intruso (dotato di maschera - design di Jeff Farley - tanto anonimizzante, nascondendo l’identità dell’assalitore, quanto al contempo cangiante - ma questo è opera delle dissolvenze di montaggio, senza effetti speciali, e non della maschera artigianale in sé -, contenendo una legione di invasori e aggressori) protagonista passa dallo stare in casa a piedi nudi, per poi indossare calzettoni, all’arrivare a calzare scarpe da ginnastica anche a letto dormendo o cercando di farlo sopra al copriletto.

“This is just how things are.”

Ultimi fotogrammi tanto furentemente liberatori quanto rassegnatamente coercitivi.

 

Fortunata, eh?

* * * ¼ (½)    

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