Regia di Mathieu Amalric vedi scheda film
Si tratta di uno tra i film più sinceri che si siano mai visti sul tema della perdita di un caro.
Per comprendere fino in fondo la genesi di Stringimi forte (74ma edizione del Festival di Cannes, sezione Première) è necessario partire dalla pièce teatrale Je reviens de loin scritta nel 2003 da Claudine Galea. Si tratta di una storia di affetti spezzati di cui Mathieu Amalric, che ha lavorato da regista con risultati pregevoli, in parallelo alla sua più famosa carriera di attore, coglie il potenziale cinematografico, dopo le emozioni in lui suscitate dalla lettura del testo. Ne cambia però il titolo, ispirandosi ai versi de La nage indienne di Étienne Daho:
Serre-moi fort, si ton corps se fait plus léger, je pourrai nous sauver
(«Stringimi forte, se il tuo corpo diventa più leggero, io potrò salvarci…»).
verso del quale si perde intenzionalmente la locuzione che viene trasformata in un Serre moi, puntando alla conclusione:
Serre moins fort, si ton coeur se fait plus léger, je pourrai me sauver
(«Stringimi meno forte, se il tuo cuore diventa più leggero, io potrò salvarmi…»).
Stringere è un tenere strettamente abbracciati a sé l’altro, un gesto di affetto smisurato che può rivelarsi anche protettivo, difensivo e talvolta salvifico. I versi succitati rappresentano, nell’invito ad una differente stretta, il passaggio della psiche da una condizione di legame inscindibile all’espressione del bisogno di distacco, di un lasciar andare l’altro perché altrimenti sarebbe inevitabile affondarci insieme.
Stringimi forte ha inizio una mattina in cui Clarisse (Vicky Krieps), moglie di Marc (Arieh Worthalter) e madre di due bambini, Lucie (Anne-Sophie Bowen-Chatet) e Paul (Sacha Ardilly), fa le valigie annotando su un foglio le pratiche da sbrigare quotidianamente, sale su una vecchia auto e va via, abbandonando casa e famiglia per dirigersi verso una non meglio definita meta di mare. All’apparenza sembra una classica fuga da una stanca vita borghese (il pensiero va a Non torno a casa stasera), ma alcuni conti fin da subito paiono non tornare. Il marito non avvisa le forze dell’ordine, comportandosi come se quella partenza fosse quasi un evento programmato, mentre i ragazzi non sembrano sconvolti più di tanto, anzi, per certi versi si sentono più liberi.
Dove sei? te ne sei andata va bene, ma dove sei?
Ho smesso di fare ginnastica e suono il pianoforte tutte le volte che voglio, anche di notte se voglio.
Papà ora mi lascia in pace. Potevi partire con lui…e poi ce la caviamo da soli. (Lucie)
Lucie continua ad esercitarsi coltivando la sua passione per il piano mentre il fratellino Paul si lamenta per la colazione mal preparata e fa nel seguito una sfuriata contro il padre che ha fatto sparire dal bagno ogni oggetto materno.
Potresti tornare una sera per parlare con Paul? Dopo puoi ripartire. Ti lascio la porta della cucina aperta, va bene? (Lucie)
Ma più passa il tempo, più i familiari di Clarisse agiscono come se non avessero mai vissuto con lei. La donna, dal canto suo, durante il viaggio pensa continuamente ai propri cari; desta però più di qualche perplessità il suo comportamento ambiguo, con le avances che sembra rivolgere ad alcuni degli uomini incontrati lungo il percorso.
Ne esce fuori una dicotomia all’apparenza incolmabile: una donna sola da un lato, una famiglia abbandonata dall’altro che cerca di proseguire la propria vita. Ma chi ha abbandonato chi? Chi ricorda chi?
Tutto si svolge ed evolve in un continuo rimpallo temporale del montaggio tra passato e presente e soprattutto tra reale e immaginato, senza alcun ricorso a soluzioni cromatiche o di messa a fuoco che palesino i cambi. Amalric descrive il suo processo di trasformazione della pièce in sceneggiatura dichiarando di aver annotato, durante la lettura, una serie di parole chiave che identificassero i temi trattati:
[…] "prolungare", "trance", "rito", "Rouch"…
Non è un caso che venga citato Rouch, l’etnologo documentarista de Les Maïtres fous, cinema verità di riferimento per i Giovani Turchi. Rituali di possessione e trance degli Hauka, sangue, lacrime, alterazione mentale, sogno. Il trauma da elaborare che diventa dunque una storia frutto dell’immaginazione:
«[…] l’atto d’immaginazione è un atto magico. È un incantesimo destinato a far apparire l’oggetto pensato, la cosa desiderata in modo che se ne possa prendere possesso. […] L’immaginazione come condizione per l’uomo […] di superare il reale.» (Sartre e dunque cinematograficamente Marker).
La successione (a cui fa da tenace collante la musica da piano) dei continui sbalzi episodici nel passato remoto (il primo incontro in discoteca, la segreteria telefonica con la voce della bambina, la guida turistica per tedeschi che rimprovera un genitore che maltratta il figlio) e in quello prossimo (la famiglia in escursione, la camminata sulla neve) o nel presente (parlare da soli al bar, la posta non ritirata, lo sbirciare al conservatorio la ragazza al pianoforte) consentono di ricostruire lentamente i fatti. Fatti che però paiono passare in secondo piano, essendo il fuoco concentrato sul superamento del trauma: non c’è oblio a la Duras che aiuti a lenire il dolore, per farlo bisogna piuttosto affrontarlo e ricostruire una storia familiare del possibile.
- Sono stanca, dovresti dirci almeno qualcosa che possiamo raccontare. (Lucie)
- Che possiamo raccontare?! È quello che sto facendo, amore mio. (Clarisse)
Clarisse diventa vera e propria suggeritrice teatrale, consigliando parole e frasi; Marc e Lucie le recitano. Sono questi i passaggi più emotivamente intensi dell’intera opera, capaci di tratteggiare l’indissolubilità dei legami affettivi e la potenza espressiva del sogno che è rimpianto, superamento dei sensi di colpa tipici della perdita, desiderio e completamento interiore di una narrazione spezzata.
E poi c’è appunto Lucie, la sua crescita anagrafica e artistica testimoniata dai passaggi dal Piano Sonata No.1 in F Minor, Op.2 No.1 di Beethoven alle Nouvelles suites de pièces de clavecin version 53 di Rameau, suonata coi capelli color cenere, fino alla Musica Ricercata N. 1 di Ligeti con cui testa, tiranneggiandolo, il nuovo pianoforte, lei che era partita piccolina strimpellando faticosamente un per Elisa col suo incedere claudicante.
Mia figlia è Martha Argerich
La nota pianista appare in una scena del documentario Bloody Daughter della figlia Stéphanie Kovacevich mentre suona il Piano Concerto No.1 in e Minor Op. 11 di Chopin: si descrive il rapporto complesso di relazioni affettive con una madre ingombrante. In questo caso la mescolanza è tra storie simili, l’arte le lega, la figura pubblica della pianista testimonia come un privato esista e pesi sempre e per tutti.
Vicky Krieps (Sull’isola di Bergman), bellezza quasi austera, è magica nel recitare il senso di smarrimento di Clarisse senza ricorrere mai all’uso di gesti e movenze melodrammatici, riuscendo semmai a far leva su una sorta di sentimento che oscilla tra la malinconia e l’accettazione progressiva dell’ineluttabile.
Le uniche scene drammatiche sono sui Pirenei, ma quando siamo al finale tutto è stato già detto e il dolore straziante pare quasi un corollario.
Arieh Worthalter sembra invece adatto anche ad impersonare la fisicità del rapporto con la sposa e la capacità umana di ottemperare sempre e comunque all’obbligo imposto dalle necessità della vita di andare avanti nonostante le perdite.
E se mamma tornasse? Non tornerà mai, troppo tempo. Ricominciamo.
Le foto del passato possono finalmente ricomporsi nel gioco della memoria; il senso di colpa di Clarisse per essersi iscritta alla facoltà di lettere e non poter diventare una celebre pianista si disvela, quel desiderio probabilmente era stato trasferito sulla figlia.
Almaric è convincente in questa sua nuova prova, nella quale la cura del dettaglio della messa in scena appare quasi maniacale, facendo ricorso a tutto ciò che lo strumento filmico consenta di offrire, anche se la sensazione è che a tratti sarebbe stato sufficiente un montaggio meno frenetico e decostruito. Si tratta però di uno tra i film più sinceri che si siano mai visti sul tema della perdita di un caro.
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