Regia di Noah Hutton vedi scheda film
The Cable Guys.
Internet of Things.
“Lapsis (Beeftech)” - il primo lungometraggio di finzione del documentarista ("Deep Time", "In Silico") Noah Hutton (figlio d’arte di Timothy e Debra Winger), da esso scritto, diretto, montato e musicato - si svolge (fra “Black Mirror”, “Sorry to Bother You”, “DEVS” e “Tales from the Loop” - con un pensiero anche a “Night Moves” -, l’ambientazione si basa s’una high-hard sci-fi virata low-soft, ma non steampunk, con accenni d’atmosfera al cinema - soprattutto per stile/forma, ma anche, in seconda istanza, per sostanza/contenuto - di Shane Carruth e della coppia Benson/Moorhead) in un presente alternativo (non “distopico”, ma alternativo, ché la distopia è quella in cui viviamo noi, qui ed ora, e senz’alcun bisogno di tirare in ballo il SARS-CoV-2) in cui Amazon, Deliveroo, Foodora, Glovo, Just Eat e Uber si alleano con Tim per governare al meglio la vita dei clienti/cittadini grazie alla creazione di un McGuffin, pardon, di un mega computer quantistico (con ennesima e immancabile - per quanto, qui, pertinente - citazione un tanto al chilo del felino paradosso schrödingeriano) attraverso la disposizione di una rete di snodi/collettori (neuroni/sinapsi) collegati da cavi a fibre ottiche da spargere per la superficie terrestre per mezzo di partite I.V.A. (l’insorgere della singolarità sarà il prossimo passo, ma per questo ci sarà eventualmente un altro film) tenute al trotto da droni volanti ed esapodi robotici della Boston Dynamics.
The Great Gig (Economy) in the Ground.
“Nelle conversazioni sulle disuguaglianze del Quantum Market l’attenzione è solitamente concentrata sugli scandalosi rendimenti di Wall Street, ma nelle zone di cablaggio in tutto il paese una manciata di aziende sta facendo soldi a palate mentre gli appaltatori indipendenti su cui esse fanno affidamento per il prezioso lavoro manuale sono lasciati a cavarsela da soli senza alcuna protezione di base.”
Reflusso Perpetuo.
“Togli il mal di testa, togli il dolore, la nausea, e ti rimane quella che penso sia una reazione davvero ragionevole al mondo, che è quella di ritirarsi.”
Molto buona la fotografia di Mike Gomes ed ottimo il cast: dal protagonista Dean Imperial al deuteragonista Gideon “Babe (Ruth)” Howard, entrambi semi-esordienti al cinema, passando per il ruolo secondario del veterano James McDaniel al cammeo di Arliss “Pvt. Cowboy” Howard (padre, con Winger, di Babe, che quindi è fratellastro del regista), qui in versione mègu megùn, e ponendo una particolare attenzione all’interpretazione di Madeline Wise (“Crashing”), brava e bella (tra Aubrey Plaza e Rhea Seehorn).
La spossatezza cronica si cura con le Cose da Fare, non con le tisane.
Fra sottile retorica, leggero umorismo e velato thriller, è un sur/iper-reale film-metafora molto intelligente (denso, ma decifrabile anche dal famigerato Grande Pubblico… verso il quale… non è rivolto).
* * * ¾
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