Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film
Forse è triste intercettare il difetto comune a molto del cinema medio italiano contemporaneo, quello cui può fare riferimento forse Muccino ma sicuramente Luchetti, ma ci tocca: in sede di sceneggiatura il calcolo è orientato sempre verso l’enfasi e l’accento più eccessivi su ogni singolo dialogo e situazione. Un film come Lacci che del suo tempo (Napoli, anni 80) vorrebbe raccontare anche quotidianità e contesto è invece intrappolato dalla costante voglia di overacting e overdirecting. Continui close-up attaccati ai volti di Rohrwacher, Lo Cascio, Morante, Orlando, Mezzogiorno e Giannini per coglierne le sfumature più sinistre e ammiccanti, come se non fosse possibile cogliere piuttosto il senso di un movimento, di un silenzio o di un’attesa. Ma in questo torrente inesauribile di discorsi profondi, di verità messe sul tavolo e di plot twist – rincarati da superflui giochi temporali che giocano con le aspettative dello spettatore – è piacevole trovare quelle piccole idee che dopotutto rendono Daniele Luchetti un regista che sa porre il suo sguardo sulle cose. Sono piccole scene, in effetti, in cui o il personaggio è avvicinato/incontrato dalla camera tramite una dissolvenza incrociata (che può sostituire qui un jump cut come un’intera ellissi temporale) oppure l’audio scompare e la scena, più o meno drammatica, diventa muta eincomprensibile. Sono forse i momenti in cui il rapporto fra marito e moglie è finalmente mostrato dal punto di vista dei figli, che verranno segnati a vita da quei litigi e da quelle scenate? Sarà il finale a farci capire qual è effettivamente il punto di vista dell’intera vicenda. Un finale che non arriva troppo sorprendente ma che, pour rire, può definirsi come un Settimo continente hanekiano in miniatura.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta