Regia di Elisa Amoruso vedi scheda film
Che fretta c’era… di fare un film de merde.
Vecchio come una vecchia hit usata come furbo, riconoscibilissimo titolo, molesto come una popolarissima hit latinoamericana di decenni fa (la Lambada, madre de dios), piatto e standardizzato come la processione paesana di un qualche santo in un qualsiasi posto, risaputo manco fosse l’ennesimo coming of age spara-cliché.
Quello che non c’è, in Maledetta privamera, è un senso che vada oltre la mera, magra rappresentazione di tracce di sé e dei propri passeggeri del passato: i titoli di coda, abitati da spezzoni di filmati della famiglia della regista che peraltro informano sui destini dei personaggi tipo una soap, confermano la povertà e il poverismo dell’operazione.
Un complesso autobiografico (o semi, o quel che è) che si autodefinisce e autoalimenta nella malriposta idea che abbia qualcosa da dire; e che, nel farlo, inserisce furbescamente ma blandamente emblematiche istanze dell’oggi più come tessera d’appartenenza e vistoso ammicco che come filigrana di pensiero critico.
L’artificio, d’altronde, pare essere il solo costrutto realizzativo: c’è una stori(ell)a, la si riempie con residuati random di idee e visioni che appartengono al sentire comune, la si popola di personaggi privi di spessore e identità, di anima, si fa leva su rodati meccanismi e sentimenti, e si spera che qualcosa venga fuori.
Viene fuori un ritratto anonimo, stravisto, indistinguibile dalla massa abnorme dei suoi simili: Elisa Amoruso, all’esordio nel lungometraggio di finzione, si limita al confezionamento da catena di montaggio, nella speranza, evidentemente, che un taglio pseudodocumentaristico – in particolare nell’inseguimento pedestre dei volti e dei corpi delle due giovani protagoniste (incapace minimamente di farne buon uso) – possa conferire il minimo sindacale di personalità.
Speranza vana, così come vano è il tentativo di rintracciare altri livelli di lettura (?): il piattume è una realtà amara, un boccone da mandar giù mentre lo schermo restituisce propositi fumosi, approcci timidissimi nell’affrontare questioni altrove sfruttate con ben altro piglio (e talento), la mancanza di uno sguardo (men che meno "femminile"), e accrocchi sciagurati, tanto sul piano narrativo quanto su quello estetico.
Se la sceneggiatura percorre territori (stra)battuti con le scorciatoie e le incertezze e le brutture tipiche del nostro cinema peggiore, contesto e ambientazione non riescono ad affrancarsi dal periodo nostalgico per eccellenza.
Non si esce vivi dagli anni ottanta.
I toni, le canzoni, i motorini e le auto, l’oggettistica e le paranoie, i cartoni animati: sì, è esattamente come te lo aspetteresti.
Così come ti aspetti la/e scena/e madre/i, i didascalismi manifesti, il portato metaforico generico, la cantata catartica a squarciagola in macchina del pezzo che dà il titolo al film, la periferia e i casermoni popolari, il vezzo (il francese parlato per un discreto minutaggio), gli svolazzi della mdp e la colonna sonora intimista-minimalista-generalista.
E poi.
La Ramazzotti che ramazzotteggia. Incredibile, nevvero?
[il generatore automatico di micaelaramazzotteggiate dice che puoi mischiare tra loro scene a caso di film differenti in cui Ella appare che tanto è lo stesso. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si ramazzotteggia]
La recitazione da fiction televisiva: inadatta la protagonista, Emma Fasano, non pervenuto Morelli, indisponente Ielapi, presenza folgorante invece la franco-camerunense Manon Bresch, per quanto palesemente troppo vecchia per la parte che interpreta.
I muccinismi, persino.
Madonna, troppo da sopportare per novanta minuti e poco più.
Curioso, semmai, che la sola sollecitazione che la visione di Maledetta primavera riesce a suscitare è il parallelo con un’altra opera prima diretta da una regista, con la quale condivide alcuni elementi importanti, ovvero Magari di Ginevera Elkann, distribuito appena un anno prima. Che sì, era decisamente più riuscito e personale.
In definitiva, e in sintesi: Maledetta primavera non ha proprio nulla da dire se non a chi lo ha pensato/scritto/diretto.
Un altro filmino da proiettarsi in saletta.
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