Regia di Sam Hargrave vedi scheda film
I Russi, pardon i Russo, colpiscono ancora. E così, dopo averci regalato quei due capolavori intramontabili dell’intrattenimento contemporaneo che sono i due Avengers Thanos-centrici, si cimentano indomiti nella produzione e, in particolare nel caso del prode Joe, pure nella sceneggiatura di questa nuova scintillante gemma artistica.
Un film di profondità insospettata e insospettabile, accuratamente celata sotto la patina dell’azione e della violenza sfrenata. Un film pregno di significato e di insormontabili conflitti interiori, di grandi domande e di terribili dilemmi, di tragiche riflessioni e di amare sofferenze. Un film importante. Originale, innovativo.
Un’interminabile sequela di “ammazzatine” e cazzotti, cliché e scempiaggini che però non devono per nessun motivo trarre in inganno. La violenza è fine a se stessa, ma in realtà non proprio. L’azione è concitata e ripetitiva, febbrile e irritante, e la trama inesistente, ma in realtà è tutta un’impressione. Questione di percezione e di capacità intellettuale.
Chiunque non riesca a rinvenire, estrapolare, comprendere la grandiosità da affresco tragico dell’opera ha da incolpare solo se stesso e nessun altro, obnubilato come certamente si ritrova ad essere da vacui e vetusti meccanismi interpretativi del passato, sterilmente preoccupati di elementi invece puramente circostanziali del genere di narrazione, logica interna, recitazione, coinvolgimento, progressione drammatica, insomma, scrittura e dunque cinema.
Tyler Rake non ha niente da spartire con costoro, individui ormai sorpassati. Tyler Rake è un film proiettato nel futuro. Un futuro in cui il cinema si riduce, anzi, di nuovo, pardon si eleva al livello d’un banale e ripetitivo e idiota videogame sparatutto in terza persona.
Qualcuno potrebbe forse chiedersi cosa chi scrive mai si aspettasse da un film del genere al di fuori di azione, azione, azione punto. Presto detto: ingenuamente, del cinema. Non una “alternanza di scene” che inevitabilmente lascia indifferenti, ma un film con una narrazione e una progressione, un qualcosa. Mentre qui è il nulla, ad imperare. Il nulla cosmico o il nulla astrale, il nulla definitivo o il nulla totale. Ma sempre e pur sempre il nulla.
Tyler Rake è film decerebrato per un pubblico addormentato (in senso letterale). Anche perché, proverbialmente, oltre alla sospensione dell’incredulità pure la pazienza ha un limite.
E, di conseguenza, il film si guadagna la sua mezza stelletta in più solo grazie all'improvviso, spiazzante, coinvolgente e impressionate finto piano-sequenza di oltre dieci minuti a circa una mezz'oretta dall'inizio, che seppur esagerato e improbabile come il resto del film, è almeno utile a risvegliare momentaneamente lo spettatore dal suo stato d’incoscienza. Questo segmento rappresenta senza dubbio il punto più "alto" d'una pellicola per il resto tragicamente anodina, incolore, insapore e insulsa.
Non a caso, soprattutto dalla fine di detta sequenza in poi, più trascorrono i minuti e più si fatica oltre ogni dire a riaprire le palpebre, visto che all’ennesima provvidenziale schivata di proiettili e abbattimento contemporaneo di 50 nemici al secondo, la sospensione dell’incredulità ormai latita e la monotonia regna sovrana, tra raffiche di BANG, BOOM e RATA-TA-TA-TA-TA e patetici momenti di pseudo-intimità tra il baldo mercenario e il docile ragazzino che rischiano di provocare sguaiate risate grazie alla sublime qualità della scrittura.
Una scrittura di assoluto livello che ha permesso la realizzazione di un’opera cinematografica d’altrettanto elevato prestigio, che ha peraltro la buona grazia di renderci consapevoli di un paio di questioncine d’ordine generale che suona quasi sciocco rimarcare da tanto che risultano essere di per sé evidenti.
E quindi in sostanza, al tirar delle somme, giungiamo infine a comprendere come la vita di un tredicenne indiano figlio d’un trafficante incarcerato valga 100.000 vite di inutili, sconosciuti, incapaci “straccioni bengalesi” e la tramutazione d’una città da 20 milioni di abitanti in un campo di battaglia.
Inoltre, sciocchi noi a non intuirlo ben prima, finalmente arriviamo a comprendere il fatto che saremmo tenuti a provare una qualche sorta di empatia per un mercenario praticamente senza scrupoli con centinaia di morti sulla coscienza per il semplicissimo motivo che detto signore pare dimostrare una certa ritrosia nell’uccidere a sangue freddo dei giovinetti. Ah, e poi anche perché gli è morto un figliolo qualche anno prima.
Bene, tutto chiaro? Extraction (o Tiberio rastrello che dir si voglia) è sicuramente un film fenomenale, e si vede necessità di ribadirlo. Uno dei vertici della presente stagione “cinematografica”, un capolavoro del cinema postmoderno alla Fast and Furious con tanto di patrocinio spirituale michaelbayano che non dovrebbe mancare per nessun motivo nella videoteca personale di qualunque cinefilo degno di tale nome. Pena “rastrellamento” sommario.
Quando si dice "l'australiano che passa inosservato a Dacca"...
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