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Il corridoio della paura

Regia di Samuel Fuller vedi scheda film

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(spopola) 1726792

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il corridoio della paura

di (spopola) 1726792
8 stelle

É uno dei capolavori assoluti di un Fuller in stato di grazia che immerge lo spettatore nell’incubo spiazzante della perdita della ragione, lo fa penetrare nell’inferno senza uscita della dissociazione mentale che riproduce non solo attraverso i movimenti e le parole, ma anche rendendo “visivamente reali” le allucinanti conseguenze della pazzia.

“Il corridoio della paura” è uno dei capolavori assoluti di Samuel Fuller. Rivisto oggi, mantiene inalterata tutta la sua potenza visionaria, compresa la forza della provocazione: un pugno nello stomaco difficilmente assorbibile con l’indifferenza, che costringe a riflettere e ragionare. Claustrofobico e allucinato come pochi altri, è anche uno dei rari esempi in cui persino la povertà dei mezzi a disposizione dell’autore (una condizione questa con la quale il regista ha dovuto quasi sempre fare i conti nel corso della sua straordinaria carriera) diventa uno degli elementi determinanti – il catalizzatore necessario – finalizzato ad esaltare proprio la grandezza del risultato. La storia si può riassumere sommariamente come quella di una “contaminazione” mentale progressiva e senza scampo, un “viaggio” senza ritorno (che è anche indagine conoscitiva) nella paranoia e nella follia. Il protagonista è un giornalista del Globe “assetato” di fama e di successo che, nell’intento di risolvere “a suo modo” un caso di omicidio rimasto impunito e acquisire il materiale necessario per raccontare il misfatto e il suo autore, così da farne un vero e proprio scoop giornalistico che potrebbe fargli guadagnare il premio Pulitzer a cui aspira, si fa rinchiudere (facendosi passare per un maniaco sessuale), nel manicomio all’interno del quale è stato commesso il delitto. Il suo rischioso cammino nei meandri delle distorsioni mentali verso la progressiva scoperta della verità, si concluderà però tragicamente. Il colpevole sarà individuato ma solo quando ormai è troppo tardi: sopraffatto dall’universo alterato dei corridoi della clinica e da quello analogamente stravolto dei suoi abitatori alienati (un riflesso esasperato che rispecchia implacabilmente i mali e le inadempienze dell’intera società, perché la dimensione del narrato, con le sue “allusioni ribaltate” che rappresentano una allegoria programmatica del lato oscuro di una nazione in crisi, stigmatizzandone perfino le responsabilità, vuole essere anche – e soprattutto - politica, oltre che umana) finirà a sua volta per sprofondare nelle anse aggrovigliate dell’infermità mentale. Il nome dell’assassino rimarrà così chiuso per sempre dentro l’abulia catatonica della suo cervello ormai incapace persino di razionalizzare la notizia, uno stato demenziale quasi larvale totalmente avulso dalla realtà, dal quale ormai nessuno, e tantomeno la fidanzata che ha sempre paventato il peggio, riuscirà a risvegliarlo e riscattarlo. Le tematiche sono molteplici ed evidenti (sia esplicite che metaforiche) come quella dell’ambizione sfrenata che inevitabilmente si trasforma in squilibrio psichico (altra costante, magari diversamente espressa e meno estremizzata, di una parte predominante delle opere realizzate dar regista) o quella che esternizza la critica alla sconsiderata presunzione di chi pensa di poter “modificare” il proprio destino con il semplice “cambio” (o camuffamento) di una identità anagrafica che consente sicuramente l’acquisizione di connotazioni anche psicologiche diverse ma non garantisce certo la “salvezza” o l’assoluzione. Non ultime poi, le sottolineature amplificate delle le metamorfosi schizofreniche degli internati (una singolare galleria di “personalità contrapposte” ottenebrate dai sensi di colpa o scardinate così tanto dall’assumere la fisionomia del persecutore anziché mantenere quella del perseguitato, che va dal reduce della guerra di Corea che ha subito il lavaggio del cervello che crede di essere un generale sudista, allo studente universitario nero diventato pazzo per colpa di un bianco che si crede un membro del KKK, gira incappucciato alla a caccia degli “sporchi negri” come un qualsiasi altro aderente della setta, inalberando cartelli razzisti, fino allo scienziato nucleare regredito a una condizione di totale infantilismo) che in qualche modo aiuteranno il protagonista a scoprire la verità, ma lo porteranno con maggiore accelerazione a perdersi a sua volta e in maniera sempre più irreversibile nei vicoli oscuri del proprio subconscio angosciato. La distorsione paradossale che diventa un vero e proprio universo parallelo con il ribaltamento della realtà oggettiva di quella che viene considerata la vita “normalizzata” all’esterno della gabbia, è l’intuizione straordinaria (o la cartina di tornasole) che permette di innescare rendendolo plausibile, il contorto groviglio che si stringe come una morsa intorno al protagonista e che ci fa percepire in maniera persino tattile quel suo lento e inesorabile precipitare nel disfacimento progressivo dell’equilibrio che diventa un vero e proprio disturbo della personalità. Ben assecondato dalla straordinaria, contrastata fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez, pur utilizzando un gruppo di interpreti non eccezionali (ma dei quali sa sfruttare magnificamente anche gli “impacci” per definire meglio le psicologie malate con le quali è costretto a scontrasi il giornalista), Fuller ci immerge a nostra volta nell’incubo spiazzante della perdita della “conoscenza”, fino a farci penetrare nell’inferno senza redenzione della dissociazione mentale che riproduce non solo attraverso i movimenti e le parole, ma anche rendendo “visivamente reali” gli incubi che dissolvono la ragione (non solo le prime avvisaglie di smarrimento del giornalista, o le conseguenze dell’elettroshock ma anche le ossessioni mentali di tutta la compagine degli internati, utilizzando con intuito geniale - per le parti più estreme - intere sequenze girate a colori e in cinemascope non compresso, e quindi fortemente deformate, “recuperando” alla bisogna, scene da “La casa di bambù” del 1955 e da un’altra pellicola purtroppo mai portata a termine che doveva intitolarsi “Tigrero”, che meglio definiscono lo “sconquasso”). La scena (virtuosistica e sublime) dell’incubo “definitivo”, quello che segnerà il punto del non ritorno, una pioggia tempestosa sempre più violenta e scrosciante di intensità crescente, simile a una cascata inarrestabile dai liquidi ribollenti e infidi di tale intensità da distruggere “virtualmente” il cervello e la memoria insieme all’intero corridoio della clinica, è la magnifica sequenza che ci fa a nostra volta raggiungere l’apice emozionale del coinvolgimento disperato e disturbato all’interno di quella follia: dopo il temporale, solo la quiete catatonica senza speranza e la disperazione accorata della “sua” donna che ormai non può più aiutarlo. Visionario e barocco, lucido e “complesso” nelle tematiche affrontate, cinico e pensoso, struggente e sconfortato, critico e accusatorio, “Il corridoio della paura” è veramente uno dei titoli imprescindibili da recuperare assolutamente, soprattutto adesso che è disponibile per “Puntozero” un dvd (per la verità piuttosto spartano) che ha il pregio non indifferente di farci finalmente riconquistare alla visione, la versione che “reintegra” le scene a colori nella modalità originale concepita dal suo autore (e non è davvero un merito da poco).

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