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To Take a Wife

Regia di Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz vedi scheda film

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La recensione su To Take a Wife

di leporello
8 stelle

      Comincia con una caotica ramanzina in quel di Haifa, Israele, fine anni ‘70: un padre e un numero imprecisato di fratelli tempestano l’ammutolita Viviane (Ronit Elkabetz, protagonista e co-regista del film insieme a suo fratello Shlomi), stritolandola in prolungati, sofferenti primi piani, e sollecitandola, date le molteplici e tutte maschili ragioni in campo,  a pacificarsi con suo marito Eliahou (Simon Abkarian).  La sequenza successiva, conclusasi la prima con un (poco convinto, ma consolatorio) bacetto di pace tra i due coniugi, è una sarabanda di strilli, affanni, grida, rincorse, urgenze, fatiche... e qui non c’è nessun marito in scena, ma solo Viviane e le sue malcelate angosce, e con lei una suocera, e con loro quattro figli impossibili da gestire, di cui una sola femmina, l’unica ad essere silente, l’unica che non fa rumore e che sola, quasi di nascosto, ascolta e piano si muove, proprio come fa sua nonna.


     Tutto il film è la rappresentazione di un inferno, di un matrimonio impossibile, magari per colpa di nessuno (Eliahou NON è un uomo cattivo, anzi. A regola è pure troppo bravo: lavora sodo, è timorato di Dio, addirittura cucina, sparecchia, e lava i piatti, men che meno picchia sua moglie). Però è la persona, il marito sbagliato, inadeguato, sordo e insensibile a tutte le piccole aspettative, i desideri semplici di sua moglie (una  breve vacanza? Un cinema? Un fine settimana da trascorrere insieme con i figli?), troppo preso com’è dalle sue proprie esigenze, dai suoi valori, dal suo modo di concepire la vita e il matrimonio. Ma sarà Dio stesso ad aprirgli, anche solo per il breve, fugace instante nel finale del film, manifestandosi a lui e a noi, come Roveto Ardente, attraverso le commoventi lacrime che  coglieranno di sorpresa e all’improvviso  lo stesso Eliahou  mentre canta nell’assemblea della sinagoga). E allora la colpa, se non fosse di nessuno, potrebbe essere anche una colpa di tutti, una colpa diffusa, delle  convenzioni, delle tradizioni grigie, delle scale di valori sociali ed individuali (oltre che di Genere), valori che non comprendono, nemmeno in sottofondo, nemmeno di tanto in tanto, il sapere o il dovere cogliere anche i bisogni e i desideri dell’altro (della moglie, naturalmente, essendo Dio notoriamente Maschio).


    E in questa prigione, perfettamente registrata dai due registi in termini claustrofobici (non solo e non tanto di ambiente, quanto di reclusione forzata di aspirazioni e sentimenti) si inserisce uno spiraglio  nel quale l’intelligenza registica e intellettuale del duo Elkabetz si fa apprezzare: un vecchio amante di Viviane che compare all’improvviso, che si propone come una manna destinata a non cadere mai, e che al suo posto lascia invece scendere, in una sequenza fotografata con colori ed atmosfere totalmente avulse da tutto il resto del film, petali gialli ricchi di aspettative vane, e che fa dialogare i due amanti (amanti veri, in questo caso) fuori sincrono, come se la loro mancata storia  sia solo un universo parallelo, una realtà irraggiungibile, quasi una favola, a causa di leggi che si propongono come fisiche, ma  che fisiche non sono, essendo solo antropologiche e culturali.

 

    Tutto questo ben lo sa, senza mai dirlo, la nonna (la Storia? La Verità?), taciturna ed anonima, ostinata nella sua severa discrezione (meravigliosa la scena inserita nel catartico finale, in cui con una fune culla il più piccolo dei quattro bambini), quasi una Profetessa (il Roveto Ardente fu forse femmina?), che, lontano dai riflettori e in una “stanza accanto”, con quell’atto di donare alla nipotina (il Futuro?) un povero portafortuna raccomandandole di non perderlo mai (scena madre, direi, seppur nascosta e che può passare quasi inosservata), sigla  un patto,  propone (implora?)  una tregua,  firma e promulga  la Santa Alleanza tra le generazioni e, senza preghiere e senza tanti fronzoli, chiede (magari impone, chi lo sa...) a Dio di liberare quella Generazione di Mezzo alla quale Viviane, stritolata dalle lacrime nere del trucco che le si scioglie sulle guance, ancora (e Dio solo sa  per quanto) inesorabilmente appartiene.


    Da sottolineare con forza, infine, il notevole talento tutto drammatico della due volte protagonista di questo film: Ronit Elkabetz è semplicemente strepitosa come attrice (le scenate dolorose piene di lacrime e di rabbia, gli sfoghi improvvisi, o anche solo i silenzi espressivi nei quali la Ronit Elkabetz regista la incornicia con la cura e la sensibilità che solo una Femmina (o uno Spirito Femmina) può avere.

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