Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Con Wes Anderson, come con tutti i registi con una poetica fortemente riconoscibile, si rischia di riscrivere ad ogni sua opera sempre le stesse identiche cose dando ormai per scontate, e quindi immagazzinate e catalogate nella nostra mente, gli aspetti e le caratteristiche fondamentali del suo operato.
The French Dispatch, da questo punto di vista, non fa eccezione, ribadendo quello stile odiato da molti per essere troppo attento alla forma, per le sue simmetrie perfette o per l’estetica color pastello così irritante per qualcuno e amato invece da altri per una immaginazione da accogliere appieno nella sua bellezza o l’inventiva, la meticolosità e l’eleganza nel creare mondi ricchissimi, ironici e stralunati come anche i personaggi che lo popolano.
Con una vicenda distributiva travagliata a causa della pandemia, Wes Anderson ritorna quindi al cinema in live action dopo l’animazione de L’isola dei cani e, se possibile, alzando ulteriormente l’asticella del sovraccarico stilistico e narrativo e a un cast sempre più affollato di nomi e artisti (inutile elencarli tutti, non finirei più…) corrisponde un racconto sempre più variegato di generi, forme e rimandi cinematografici.
Questa volta l’ispirazione trova origine, struttura e ambientazione in un magazine immaginario, un evidente omaggio al The New Yorker, chiamato French Dispatch, supplemento periodico con redazione in Francia dell’Evening Sun, quotidiano di Liberty, Kansas, che alla morte del suo primo e unico direttore per sua volontà sospende le pubblicazioni salvo un ultimo numero composto da tre articoli già precedentemente pubblicati e riproposti come necrologio non solo suo e, quindi, della sua stessa rivista ma anche di un certo modo di fare giornalismo, di raccontare storie o di viverle e di approcciarsi alla vita e/o al mondo che ci circonda e che sembra ormai scomparso.
E Wes Anderson ne ripercorre le pagine di questo commiato attraverso una serie di stili e forme disposte stanze dopo stanze e set messi in fila e aperti come in esposizione per una collezione di immagini già viste (o di parole già scritte) tra suggestioni cinematografiche, illustrazioni, pubblicità o fumetti e cartoni animati come oggetti e/o particolari recuperati in strani negozi polverosi o in mercatini vintage di seconda mano.
Grazie alla collaborazione in sceneggiatura di Roman Coppola, Hugo Guinness e Jason Schwartzman, con The French Dispatch Wes Anderson può inoltre esternare tutto il suo affetto per Parigi, ormai da anni la sua seconda casa, e la sua ammirazione per il cinema francese (da Truffaut a Renoir, da Goddart a Malle) o, più in generale, a rendere omaggio alla cultura francese (o, meglio ancora, alla sua visione della cultura francese) e al giornalismo (o, meglio ancora, al suo ideale giornalistico) ma filtrato attraverso la lente deformata della sua personalissima immaginazione.
Un film a episodi come raccolta di racconti che spaziano per durata, forma (passando dal colore al bianco e nero e dal disegno al collage) e contenuti per un “tableu vivent” di personaggi e luoghi ma sempre secondo un rigido ideale che rispetta prerogative estetiche riconoscibilissime, portando il metodo andersoniano a un ulteriore grado di perfezione in un surplus letterario che porta a dipinge un quadro più affascinante (e favolistico) di una realtà purtroppo molto più prosaica.
Ad Anderson non interessa davvero la natura dei suoi racconti quanto il modo di come questi funzionino, sullo schermo e all’interno del suo microcosmo personale costruito come circuito chiuso e inteso soprattutto come sistema estetico e lavoro concettuale, perché è l’immagine che interessa davvero al regista, affrancandosi dall’empatia spettacolare e riducendo il racconto da semplice pretesto a solo generatore di immagini, indipendentemente dal contesto: non è l’immagine a illustrare il mondo, è il mondo a esistere per dare senso all’immagine.
Che piaccia o meno, così è secondo Wesley Wales “Wes” Anderson.
VOTO: 6,5
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