Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Anderson Overkill. L’ultimo opus dell’acclamato regista è l’apoteosi dell’auto-indulgenza, il grado ultimo del suo stile “pop e guardate quanto so’ figo” che, in tutta onestà, ormai ha stancato. Ma tanto. Siamo arrivati appunto all’overkill, ovvero dell’eccesso indigeribile, vacuo, pretestuoso ed estenuante. Esagerazione completa, esasperazione (stilistica e dello spettatore) assoluta, portata oltre ogni livello di guardia.
Già i suoi precedenti film tentennavano, sempre lì per lì per precipitare nella più totale artificiosità con poco costrutto, ma qui veramente – mancando qualunque “tessuto connettivo”, un minimo barlume narrativo di qualche interesse – si giunge al definitivo trionfo dello stile sopra tutto. Stile, peraltro, alla lunga irritante. Perché, sì, la scenografia e la fotografia “pastosa”, colorata, satura fanno sì che certi quadri paiano quasi dipinti, come riportato da più parti talvolta dei veri e propri tableau vivant, ma in questo il film si risolve.
Non v’è altro appiglio possibile: è Anderson 100% DOC che ha smarrito ogni freno, ogni contegno e si trova ormai perso nel suo delirio fantasmagorico con, appunto, un’auto-indulgenza degna del peggior Sorrentino.
The French Dispatch procede per quadretti all’acqua di rose – che al massimo in due occasioni riescono a strappare per un attimo un sorrisetto (il peggiore probabilmente è quello con Scemolotto e McDormand, ambientato in un asettico, de-politicizzato contesto simil-sessantottino) – stipati di personaggi anonimi che si scordano subito (unica eccezione, forse, il Rosenthaler di del Toro [protagonista del primo racconto, viceversa il “migliore”]) e costruiti su trame senza interesse che si esauriscono quasi all’istante, lasciando il pubblico in balia di una frenetica alternanza allucinata di inquadrature che fa venire i giramenti di testa dopo un quarto d’ora.
Inoltre, come s’era già avuto modo di notare in passato, Anderson commette spesso uno dei “peccati capitali” della cinematografia: dunque, invece di mostrare racconta, tramite interminabili monologhi in cui tutto ciò che accade viene spiegato passo passo come si trattasse di un audiolibro, ingenerando un’emorragia verbale da orticaria immediata specialmente in considerazione del suo esser costituita da battute si vorrebbe trasudanti sagacia e mirabolante ironia, quando invece alla lunga finiscono per “trasmettere” piuttosto presunzione e gratuità. In quanto Anderson in generale non sembra preoccuparsi minimamente di chi guarda il quale infatti, salvo nel caso sia un fan temerario, difficilmente potrà dirsi “soddisfatto” della visione: più che altro, ammorbato.
Spacciato quale “omaggio alla professione del giornalista”, il film mai riesce ad appassionare alle vicendine narrate, ed anzi induce quasi ad odiare certi personaggi e il loro costante ciarlare a sproposito, altro che ad apprezzarne la bravura. Il tutto perviene come freddo, tedioso, distanziato, fastidiosetto, insapore, salvabile solo dal punto di vista visivo. Sarà anche un film eccentrico, ma in senso negativo.
L’unico rifugio di mesto divertimento per lo spettatore alla fin dei conti diventa il gioco al “trova la comparsata”: il gioco di riconoscimento della moltitudine di interpreti famosi che talvolta appaiono e scompaiono nel giro di qualche secondo, dalla soubrette della Ronan al rapitore di Norton, dal “quarto incomodo” di Waltz all’”Abaco” di Defoe. Tutto qua. Un po’ poco, a voler fare gli eufemistici.
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