Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Mentre consultavo la newsletter settimanale sapevo già che non avrei trovato un titolo di mio interesse tra quelle righe. Fui sorpreso, dunque, quando lessi il programma delle proiezioni. "The French Dispatch" era lì con il suo variopinto cartellone simile alla copertina di un fumetto. Avvisai il mio amore che voleva dedicare il suo prezioso tempo a Wes Anderson più di quanto lo desiderassi io. Venerdì sera, ore 22.00. Certo mia moglie, già provata da una settimana di riunioni e di lezioni non esultò all’idea di andare al cinema a quell’ora con, sulle spalle, un carico di stanchezza tale da reclamare un posto al "Cinema Bianchini", ovvero sotto le coperte e sopra ai cuscini. Ma dalle nostre parti è bene cogliere le occasioni poiché, di rado, si ripresentano. Così ci ritrovammo seduti su una comoda poltroncina, a pochi chilometri da casa, per vedere "The French Dispatch" previo consumo di un parco desinare e di un lunghissimo caffè.
L’inatteso e sottostimato successo economico del film aveva spinto il nostro esercente/programmatore a recuperare il film del regista americano, uscito la settimana precedente, e sacrificare un qualche anonimo titolo ”mainstream” che generalmente occupava una delle tre sale. La settimana prima “the Dry” aveva lasciato a “secco” un po’ tutti ritornando quatto quatto tra i canguri. Tanto valeva provare una di quelle strane creature festivaliere che ogni tanto arrivavano in città senza avventurarsi mai nell’edonista e laboriosa provincia veneta. Così fu. Il nostro gestore/controllore/spazzino/bigliettaio aveva preso il film presentato in concorso a Cannes lasciando probabilmente inebetiti gli estimatori del regista già approdati, non senza bestemmiare, in lidi ben più lontani pur di ostentare la loro coriacea fedeltà. Una mossa giocata, forse, troppo tardi. Quel venerdì “Eravamo quattro amici al...”. Lo avrei cantato se non fossi un timidone e se la visione non avesse preteso il più assoluto silenzio. Perdere il filo con la prolissa vena dell'autore sarebbe stato un legittimo dispiacere...
Potrei continuare su questa falsa riga ma sopportereste il quarto capito del “Venetico dispaccio”? Rischierei di far “morire di noia” l’editore, ch’io poi non son capace di scrivere sfiziosi necrologi come succede di tanto in tanto in giro per l’Italia. Tre storie le aveva già scritte il pazzerello Wes, più un prologo di corsa che cantava le lodi funeree della piccola città di Ennui sur Blasé, città per gioco, città per finta, arredata, ammobiliata, compressa in un sali e scendi di scalette e botteghine, volte e piccole stradine. La fosca cittadella, un po’ sordida, un po’ chic, era protagonista del ciclostile e dello spazio scenico con i palazzi demodé e le insegne alla "Maison du Monde" che tanto piacciano ai turisti americani. Era la rivista americana di Arthur Howitzer (Bill Murray), il "French Dispatch", per l'appunto, a tessere le lodi (senza risparmiare dolenti critiche) di Ennui sur Blasé, vera e propria proiezione dell'immaginario americano della Francia novecentesca.
"The french dispatch" era una lode che si compiva, come già accennato, in un prologo, tre atti ed un epilogo altmaniano. Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) correva in bicicletta. J.K.L. Berensen (Tilda Swinton) professava da un pulpito la propria fede letteraria. Lucinda Krementz (Frances McDormand) tradiva la neutralità del reportage. La memoria eidetica di Roebuck Wright (Jeffrey Wright) non chiedeva altro che un'intervista per vagare libera in città. In tre tempi la letteratura diventava cinema, fumetto, tela. Un uomo in odore di pazzia (Benicio del Toro) dipingva la propria amata (Léa Seydoux) tra le sbarre di una prigione. Il giovane Zeffirelli (Thimotée Chalamet) trovava l'amore tra le barricate di un'insolita rivoluzione studentesca. Il Commissario (Mathieu Amalric) risolveva il caso con l'aiuto dello Chef Nescaffier (Steva Park) che alle mie orecchie suonava come un celebre caffè solubile e profumava di quell'espresso che tanto desideravo per arrivare a mezzanotte.
C'era tutto Anderson in questo Cantico al giornalismo. Forse troppo. In alcuni momenti di straordinaria lucidità mi chiedevo il perché di certe impercettibili ironie, così schive, da sparire tra le pagine del giornale senza più speranza d'esser lette. Fin troppo logorroico "The French Dispatch" rischiava, più e più volte, di appallottolare l'umana capacità di tenere la concentrazione e gettarla nel cestino. Le voci off degli egocentrici scrittori viaggiavano a briglia sciolta alla velocità di un corridore. Ad ogni curva si rischiava di perdere, fatalmente, il passo e non finire il giro.
Se il racconto dello chef appariva audace nell'integrare disegno e personaggi in carne ed ossa, il racconto dell'astuto gallerista (Adrian Brody) appariva ben più ironico e divertente nel descrivere la "vangoghiana" odissea di un artista creato ad hoc per speculare sulla vana gloria di miliardari collezionisti. L'ironia circolava tra le trincee studentesche ed i muri di ridicole facezie che separavano i giovani dagli adulti. Tra quegli ostacoli correva anche la solitudine dell'artista impossibilitato a sopravvivere senza il proprio taccuino di poesie e racconti. E tristemente arrivava la fine dei moti giovanili e dell'ardore rivoluzionario. Se ne andava la vita e il desiderio di cambiare il mondo. Qualcun altro aveva sperato di cambiare il globo per renderlo più aperto e tollerante nel racconto più pazzo e sorprendente tra ravanelli e lottatori. Ci ha provato Anderson a raccontare l'assurdo, la civiltà, la rapacità, in una parola l'umanità.
A mezzanotte tornammo a casa frastornati dal caleidoscopio di colori, dipinti e stravaganze che roteavano nel cervello insieme ad un paio di domande prive di risposta. Ma senza Timothée Chalamet sarebbero corsi in massa per ammirare questo pazzo mosaico dall'anima intellettuale? E soprattutto mi chiedevo allora e mi chiedo oggi: avranno tutti inteso ciò che gli occhi hanno visto?
Charlie Chaplin Cinemas - Arzignano (Vi)
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