Regia di Wes Anderson vedi scheda film
The French Dispatch (of the Liberty, Kansas Evening Sun) è la magnum opus di Wes Anderson: il manifesto lapalissiano di un autore radicale, incessantemente alimentato di estremismi: la messa in scena istericamente pedante, stucchevolmente simmetrica, lo ha reso uno dei cineasti più immediatamente riconoscibili anche agli occhi di un pubblico ingenuo, cultore di un’estetica caleidoscopica che scinde inevitabilmente i giudizi fra osanne entusiaste e spietate confutazioni. Furbo o sincero, vacuo o libertino che sia, il film è un inequivocabile responso di tutte quelle ossessioni e perversioni delle quali è composto il cinema di Anderson, tanto anarchico da comportare la messa in crisi della decantata dicotomia forma e sostanza, oltreché delle più classiche logiche estetico-narrative. Piuttosto, il cuore dell’operazione è un estremo e iperbolico lavoro teorico circa lo statuto – e gli eventuali significati – dell’immagine in quanto frammento ecolalico dello sguardo celato dalla quarta parete: nonostante un cast sconfinato al punto dell’imbarazzo, il vero protagonista è colui che (non) si vede, l’incessante costituzione della macchina da presa.
Fra Nouvelle Vague, espressionismo e neorealismo, The French Dispatch invoca costantemente il potere dell’editoria, ne dedica un inno camuffato in tre episodi antologici, congiunti dalla suggestione delle (tante, troppe) parole oltre la vita e la morte, eppure il tutto non fa che rimandare all’estetizzante ‘esercizio’ intellettuale, dall’uso dell’inquadratura, del colore e del formato all’alternanza fra live action e animazione.
Al di là del personale punto di vista, un diritto sacrosanto sollecitato dal film stesso, è legittimo interrogarsi sulla natura di una simile operazione: il teatrino delle memorie e dei capricci giunge ad un punto di non ritorno, al lutto irrefutabile (ove tutto ha inizio e si conclude), con il quale risulta impossibile scendere a compromessi: è The French Dispatch, è Wes Anderson, nel bene e nel male.
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