Regia di Stéphane Brizé vedi scheda film
Dopo La legge del mercato e In guerra, il trittico di Stéphane Brizé sul mondo del lavoro (più precisamente: sull’eclissi del diritto sul lavoro) approda al suo episodio migliore. Dopo il disoccupato e il sindacalista, stavolta al centro della vicenda troviamo Philippe, un manager d’alto bordo che deve tagliare qualche testa nella fabbrica che dirige per conto di una multinazionale americana. L’uomo, che nel frattempo ha visto collassare il suo matrimonio per essersi dedicato troppo al lavoro e assiste inerme ai farfugliamenti di un figlio adolescente uscito fuori di testa, convinto di poter parlare da pari a pari con Mark Zuckerberg, propone ai suoi capi d’oltreoceano di rinunciare ai bonus e a qualunque altra entrata pur di non mandare nessuno a casa. Ma, ancora una volta, per questo capitalismo selvaggio è la legge del mercato l’unica cosa che conta.
Con Un altro mondo, Stéphane Brizé si conferma come l’ideale epigono transalpino di Ken Loach. A differenza del Maestro britannico, il suo cinema punta più sulla parola che sull’azione, è asciutto, secco, non azzarda mai alcun virtuosismo di regia, anche se – come in questa occasione – non si lascia sfuggire l’opportunità per autentiche pagine di poesia, come nel meraviglioso finale in cui, sulla voce off del protagonista, due ragazzi fanno marciare un pupazzo, contando soltanto su un meccanismo cooperativo che è metafora indovinatissima del vivere sociale mediato dal lavoro. Al centro di questo apologo morale sulla disumanità del capitalismo – che erode tempo libero, affetti, valori, sentimenti – Brizé colloca una sorta di Bartleby contemporaneo, il privilegiato che – pur tentando di dire che “preferirebbe di no” – viene coinvolto nello stesso raggio di sofferenza che soffoca i più deboli.
Nota a parte per uno stupefacente Vincent Lindon, che – caricandosi sulle spalle un film che non lo fa quasi mai uscire dell’inquadratura - si conferma come uno dei migliori attori del mondo.
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