Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Dumont spiazza, lo sappiamo, forse stavolta riesce meno, ma per più di due ore magnetizza, bisogna dirlo.
«Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema»
Parole di Dumont, che mette in scena France (Lea Seidoux) suprema epifania di questa verità.
Una verità peraltro non tale da strabiliare, da presentare alle masse come rivelazione. Che l’informazione sia drogata all’ultimo stadio non è una novità, lo sappiamo da decenni, i fedeli continuano a prostrarsi davanti a giornali e televisori, gli imbonitori ad imbonire, la massa, si sa, vuole restare massa e buon pro le faccia.
Allora, cosa c’è di buono in France?
Un Dumont in gran parte irriconoscibile per chi era fermo ai capolavori della sua prima fase, da L’ Umanité a Hors Satan, passando per Twentynine Palms e Flandres.
Difficile superare sé stessi, e con quei film Dumont sembrava aver detto tutto.
Eppure questa irriconoscibiltà non è negativa, ogni artista ha bisogno di rinnovarsi, quel che conta è non buttare gli stilemi caratterizzanti alle ortiche.
E questo Dumont non lo fa.
Come le sue costruzioni precedenti, il personaggio France è finzione allo stato puro, un personaggio che ha trovato un autore, pertanto recita.
Nessuno potrebbe mai pensare di incontrare nella vita una giornalista, reporter, influencer, che salta da un set televisivo ad una conferenza stampa con Macron, da uno scontro a fuoco jiadista, ad un buen retiro sulle Alpi svizzere a curarsi la depressione, e da un gommone di migranti si catapulta in un megaparty con l’ultimo modello di Dior addosso.
Perché questa donna-miracolo ipercinetico è pure bella, anzi bellissima, e ama vestire glamour che più non si può.
Forse perché abbiamo in mente altri nomi di giornaliste serie, da Ilaria Alpi a Giuliana Sgrena, e tante altre ancora, la bionda France de meurs la prendiamo per quello che è, fiction, appunto.
Che poi è quello che Dumont vuol significare.
Se il mondo della carta stampata e della comunicazione è fiction, bisogna metterlo in scena come tale, con una marionetta che sembri vera.
Cercare altro è sforzo peregrino, la tautologia impera, rappresentare il vero-finto con il finto che sembri vero.
Una breve sinossi è impossibile, tante ne fa la nostra eroina e soprattutto ne vede con il cine-occhio del suo fido cineoperatore accompagnato dal tecnico del suono.
Scorporando dal bailamme gli elementi di inequivocabile realismo, diciamo che France ha un marito catatonico e un figlioletto menefreghista che muoiono entrambi giù da una scarpata in macchina; vive in una casa allucinante, barocca, da mal di testa da mane a sera (infatti lei ci abita poco); investe un ciclista marocchino e da quel momento cade in crisi, piange ad ogni piè sospinto, ma poi torna sorridente, posa per foto e continua a sopportare la sua assistente che non si capisce se ci è o ci fa.
Per fortuna dice no al selfie che le chiede il bambino (futuro membro della massa) di fronte al cippo della bambina violentata dal vicino di casa.
Tutto questo fino al finale edificante, cioè all’amore che trionfa e ci salva dal brutto della vita.
Ma l’amore di chi? Del tizio che aveva fatto uno scoop giornalistico su di lei, scopata a tradimento durante la cura davanti alle Alpi svizzere e che, innamorato perso, si comporta quasi da stalker finchè lei non cede, una spalla su cui piangere è sempre buona.
Dumont spiazza, lo sappiamo, forse stavolta riesce meno, ma per più di due ore magnetizza, bisogna dirlo.
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