Regia di Mario Martone vedi scheda film
Il teatro di Napoli non è solo il mero palcoscenico, ma l'intera città, tramite la quale Mario Martone esprime la sua visione del presente rifacendosi al passato, di cui il regista da molti decenni si propone come custode della sua memoria storica.
Aprendosi con i filmati in bianco e nero dei fratelli Lumiere, che ripresero scorci della città partenopea ad inizio 900', la nascita del cinematografo, segna anche il declino del teatro comico portato avanti da Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), tramite la riuscitissima maschera di Felice Sciosciammocca, che tanto divertiva sia il popolino che la borghesia napoletana, nel cui personaggio evidentemente si riconoscevano appieno in tutti i difetti e le virtù, arrivando a riderne di ciò.
Scarpetta di Qui Rido Io (2021) è ritratto cominciando dal punto di vista professionale con la sua perfomance sul palcoscenico, nella sua opera più riuscita Miseria e Nobiltà, che tante soddisfazioni materiali gli aveva procurato, poichè grazie al tutto esaurito ogni volta, è riuscito a condurre una vita di agi e lusso, dopo anni di povertà; ma ciò non ha fatto di lui un uomo migliore nell'elevazione sociale, poichè alla fine Martone nel ritratto per niente agiografico della sua figura, emerge come in realtà non sia altro che un cafone arricchito, dedito al culto di sè stesso e della sua maschera creata, che ha soppiantato si Pulcinella, ma vorrebbe vedere perpetrata in eterno dai suoi discendenti, a cominciare dal figlio Vincenzo (Eduardo Scarpetta), il quale però ha altre ambizioni.
La linfa del teatro di Scarpetta, risiede però nella sua disastrata quanto contorta situazione famigliare, sposato legittimamente con Rosa (Maria Nazionale) e con tre figli, Maria, Vincenzo (da lui continuamente vilipeso e sminuito) e Domenico, nessuno dei tre eredita l'ambizione al palcoscenico del padre (se non il secondo, ma con tutt'altre finalità), mentre i figli illegittimi, che per salvare le apparenze lo chiamano "zio", avuti con la sua amante Luisa De Filippo (Cristiana dell'Anna); Titina, Eduardo (Alessandro Manna) e Peppino, ereditano invece il talento e la passione per il teatro, il secondo in particolare diventerà il più grande scrittore teatrale del XX secolo dopo Pirandello e Brecht, quanto in probabilità il più grande attore sul palcoscenico di tutto il novecento, tramite quella famiglia che metterà costantemente in scena in tutte le sua sfumature miserevoli ed ipocrite, proprio perchè originanti dalla situazione personale, dove è costretto a "recitare" con i suoi fratelli ogni giorno della sua vita, nel chiamare zio quell'uomo che sa benissimo essere padre, ruolo che invece gli riconosce il piccolo Peppino, che si dimostra ostile a tale farsa. Una grande famiglia allargata, che si ritrova nei fine settimana e durante le feste organizzate da Scarpetta, alla medesima tavola, tutti fratelli e sorelle, generati dal medesimo padre, un uomo titanico, cafone, brutale a tratti e vanaglorioso, magari affettuoso a suo modo con tutti i figli sia legittimi che non, senza effettuare distinzioni di sorta, però manovratore delle loro vite, poichè per lui utili al solo scopo di "carne da macello" teatrale, in ruoli sottopagati scritti apposta per loro, in modo da accattivarsi le simpatie del pubblico.
La ricostruzione dell'atmosfera socio-culturale della Napoli da "belle epoque" risulta perfetta, così come il contesto letterario dell'Italia di inizio 900', con quel vate D'Annunzio, messo in scena nei suoi modi effemminati e kitsch, circondato da uno stuolo di prostitute, dove ogni suo gesto e movimento, risulta finalizzato ad un calcolato scandalo, che lungi dall'andargli contro, alla fine procura enorme successo alle sue opere, tra cui l'ultimo suo dramma teatrale La Figlia di Iorio, pomposa tragedia di forti passioni e pulsioni arcaiche, tipica dell'ultima fase letteraria di un poeta, percepito da Martone come una sorta di doppio di Scarpetta, solo che a differenza di quest'ultimo si prende tremendamente sul serio nella costruzione del suo immaginario, mentre le ambizioni di Eduardo sono molto più terrene e materiali, la parodia Il Figlio di Iorio, è solo il modo di vampirizzare il successo dell'opera principale, prendendone in giro gli aspetti più enfatici e pomposi, tipici della poetica del vate, ma questo è un sacrilegio, perchè Scarpetta non può competere con D'Annunzio (piccola parentesi, il poeta compose alcune opere in versi in napoletano, quindi avrebbe dovuto saper leggere la poesia datagli come omaggio da Scarpetta) secondo i soloni intellettuali che giudicano tutto dall'alto in basso, considerando la tragedia ben superiore al comico, così di default, condannando così all'oblio tante opere interessanti invece, solo perchè non conformi ai canoni della "bella letteratura" imperanti.
A seguito del fiasco della parodia con conseguente causa da parte degli avvocati del vate e della nascente SIAE presso il tribunale di Napoli, Scarpetta dovrà affrontare tre anni di lungo e tortuoso processo, con sempre meno appoggi da parte di un elite culturale napoletana, che lo disprezza apertamente per via del successo di botteghino (ma il popolo si sa, è sempre stato bue per i soloni), avendo dalla sua solamente l'appoggio del filosofo (futuro anti-fascista) Benedetto Croce, il quale come un ante-litteram critico dei cahiers du cinema, incurante della differenza tra stile alto e basso, pur giudicando mediocre Il Figlio di Iorio di Scarpetta (ma un'opera letteraria brutta non può essere ovviamente passibile di giudizio in un tribunale), nella sua consulenza critico-letteraria, ne difende la sostanziale differenza con l'opera d'annunziana, applicando la sua nota filosofia dello spirito, dando così dignità autonoma alla parodia messa in scena dal teatrante napoletano. E' la sconfitta finale di Scarpetta, destinato a non vedere mai riconosciute le proprie ambizioni artistiche, ma per lo meno evita la sconfitta in tribunale, tanto vale quindi usare l'aula come proprio ultimo palcoscenico, che prendendo spunto dalla propria vita, mette in scena il ridicolo di una società quanto di un uomo, con un'esibizione dove prende in giro il diritto d'autore che soffoca l'inventiva e l'arte di arrangiarsi di un'artista come lui, che non diventerà mai un peso massimo della letteratura italiana, ma anche il suo teatro comico ha la sua dignità e la maschera Scarpetto-Servillo-Sciosciamocca, nel corto-circuito realtà-finzione scenica, come in un film di Jean Renoir, riesce a rappresentare il vissuto vivido della città di Napoli, molto di più di opere di genere e forma letteraria migliore; un peccato che a Venezia non abbia ricevuto alcun premio e nè sia stata riconosciuta alla perfomance di Toni Servillo, alcun riconoscimento artistico, evidentemente lo sconosciuto filippino godeva di un traino migliore.
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