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Qui rido io

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Qui rido io

di lamettrie
4 stelle

Noioso. Lunghissimo, due ore un quarto per un film che ha sì tanti pregi, che però vengono superati dai difetti.

I pregi sono almeno quattro, non pochi.

Primo, la consueta calligrafia e la ricostruzione storica di Martone, che si riversa anche in costumi, degno omaggio alla grande sartoria napoletana, e le scenografie.

Secondo: la recitazione, ottima da parte di tutti.

Terzo: la resa psicologica del personaggio. Individualista, irresponsabile, arrogante. In una parola, insopportabile. Ha creato dolore in tutti quelli cui si è legato: i figli, vittime involontarie di una libido priva di attenzione alle conseguenze dei propri atti; e a tante donne. Questo però hanno il demerito di essersi scelto un partner così. Perché l’han fatto? Perché non avevano alternative, a dire loro: recitare e/o fare la vita da ricche era meglio che fare lavori umilianti e/o dibattersi nella miseria. Opportuniste anche queste donne, e censurabili: solo in minima parte le si può scagionare per un amore sincero, che probabilmente nutrivano per il grande artista e attore. In generale Scarpetta ha sacrificato la vita dei familiari alle sue ambizioni deliranti da padreterno. Da despota tratta tutti dall’alto al basso, come suoi dipendenti di una fabbrica dello spettacolo in cui tutti devono tutto a lui, e lui nulla a tutti gli altri; e da cui nessuno può esentarsi. Calpestando così le legittime aspirazioni (e lamentele) dei suoi familiari più stretti.

Quarto: lodevole è la rappresentazione dello squallore umano di D’Annunzio e Scarpetta. Insigni letterati, ma col vizio di essere anche molto commerciali; di essersi prostituiti al soldo; di essere schiavi di una popolarità da loro stessi idolatrata. Questo giudizio è banale per una personalità così disturbata, falsa, scorretta, arrogante e opportunista come quella di D’Annunzio, che invano ha fatto di tutto per ingannare cercando di dare segnali opposti (ma molti vi sono cascati). Ma, anche per Scarpetta, tale popolarità finisce per essere una catena: il film mostra bene i tempi nefasti dell’inizio del divismo, dello scadimento dell’arte a fini puramente economici, della svendita del talento nonostante la retorica opposta.      

Il giudizio complessivo dovrebbe essere positivo, a fronte di tanti pregi. Eppure è negativo: il film è lunghissimo, prolisso. Mostra una realtà sociale trista: nonostante i frizzi della vita attoriale e i lazzi di quella partenopea, resta un opprimente senso di vuoto, di pochezza. Si ride troppo senza motivo. Il teatrino dell’apparenza è ben messo in scena nella vita quotidiana, e di autenticità c’è ben poco. Si poteva stringere in un’ora e mezza un film che dura tantissimo: eppure il talento e la profondità del personaggio avrebbero, forse, permesso una trattazione più coinvolgente, lirica. Invece resta una rappresentazione stracca, tirata per le lunghe, macchiata da un evidente eccesso di compiacimento.

Tutti i personaggi (non gli attori) ridono di continuo e recitano la parte nella vita, ma non si arriva al sodo di qualcosa di notevole. Il conformismo, il menage tradizionalista, il già visto e il già detto, lo scontato si insinuano in continuazione in quest’opera, che alla fine risulta banale.

Un esempio per tutti: c’è una differenza abissale tra il “Miseria e nobiltà” che al cinema venne portato da Mattoli con Totò nel ‘54, autentico, pieno di vita e divertente, e quello continuamente riproposto qui, laccato, freddo e limitato.

Se l’opacità è richiesta, come nello strepitoso film su Leopardi, Martone è perfetto. Ma se il soggetto dev’essere anche brillante, Martone non va bene. E neppure Servillo.         

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