Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Le solitudini, quasi sempre fieramente gestisce e nella più lucida consapevolezza da parte di chi le vive, sono da sempre al centro della poetica cinematografica che sta alla base dell'opera del gran regista malese naturalizzato taiwanese Tsai Ming-liang.
In questa sua più recente opera ritroviamo nuovamente Kang (il suo attore feticcio Lee Kang-sheng, imprescindibile per il regista, ma pure per noi affezionati spettatori adoranti), impegnato in terra straniera a tentare una cura ai lancinanti dolori al collo che lo affliggono da tempo.
Solo, sottoposto a cure sperimentali o comunque assai particolari, in cui l'agopuntura si unisce ad altre tecniche basate sul calore, l'uomo trova casualmente nell'incontro con un abile e giovane massaggiatore, non solo lo strumento per alleviare le costanti sofferenze che la sua malattia gli procura, ma anche l'effimera occasione che gli permette di intravedere la possibilità di instaurare un rapporto affettivo.
Infatti la seduta di massaggio, che occupa almeno una mezz'ora centrale della vicenda, si trasforma, non tanto e come potrebbe apparire al primo approccio, come una occasione per condividere un momento di sfogo sessuale liberatorio e salvifico, bensì qualcosa di più: una intimità che si trasforma nel desiderio di un affetto, di una condivisione che rende una sola cosa due esseri umani che trovano nella presenza altrui, lo strumento per raggiungere finalmente quell'armonia e serenità a lungo ricercata.
Momenti magici quanto effimeri, suggellati non tanto dal pagamento della prestazione goduta, bensi da un regalo innocente ma significativo: un piccolo carillon che Kangregala al suo giovane ma esperto massaggiatore di nome Non (il giovane attore del Laos, Anong Houngheuangsy), la cui musica – quel leggendario, vibrante “Limelight” di Charlie Chaplin già colonna sonora struggente e meravigliosa di Luci della ribalta – finirà per riecheggiare come una ricerca vana dell'amante perduto.
La vita infatti unisce miracolosamente, e spesso fatalmente divide, anche quando la sintonia e l'armonia della coppia pareva aver raggiunto l'equilibrio perfetto fino a quel momento vanamente cercato.
Il gran regista Tsai Ming-liang ha smesso, per scelta deliberata e cosciente, di scrivere sceneggiature dai tempi dello straordinario Stray Dogs, ma non per questo ha smesso di filmare il suo attore feticcio, o di cercare altri personaggi che potessero in qualche modo tenergli testa.
Ecco che allora Days riesce a fondere in modo straordinario e sin incredibile la verità dei fatti (Lee Kang-sheng ha sofferto realmente di problematiche legate alla colonna vertebrale – e forse, aggiungo io per pura supposizione, già dai tempi in cui la sofferenza risultava così perfetta quando, ancora molto giovane, recitava ne Il fiume il ruolo del protagonista il cui collo risultava dolorante dagli effetti nocivi delle radiazioni presenti nell'acqua del corso d'acqua del titolo), con una pseudo narrazione che Ming-liang lascia tutta nelle mani della espressività naturale dei suoi interpreti, impegnati a recitare loro stessi e poco altro di più.
Il regista si perde e ci coinvolge nel seguire la camminata incerta e unica di Lee Kang-sheng nel suo incedere incespicato ma senza sosta, ci rapisce con le sue lunghe riprese a macchina fissa ove i colori di una scenografia di vita che pare casuale, disordinata, qualunque, in realtà risulta anche stavolta e come sempre certamente frutto di una scelta stilistica precisa e visivamente così potente da lasciarci quasi rapiti e estatici.
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