Regia di Christian Petzold vedi scheda film
Ci si muove tra le suggestioni equoree già suggerite da Yella, in cui lo spirito elementale di limacciose profondità lacustri sembra incarnarsi in un ideale di donna/mostro condannata a pagare a caro prezzo la sua scelta terrena, tra concessioni senza riserve all'amore per un uomo e lo scotto di una subordinazione di genere senza ritorno.
La bella Undine si divide fra il lavoro di conferenziere in un museo di storia urbanistica e la relazione tormentata con l'indeciso Johannes. Quando quest'ultimo decide di lasciarla, la situazione sembra precipitare; finché non entra in scena Christoph…
"Voi, uomini! Voi, mostri!
Voi, mostri di nome (Jo)Han(ne)s! Questo nome che non riesco a dimenticare."
Che il regista tedesco avesse smarrito la via del realismo della scuola di Berlino lo si era già capito con l'evocativo Wolfsburg e forse ancor di più con il fantasmatico Gespenster, ed a parte la parentesi de La scelta di Barbara (più un film intimista di resistenza civile che cupa rievocazione storica), la sua cifra sembra attestarsi nei territori inesplorati della riflessione metafisica sul senso delle relazioni umane, sempre in bilico tra vitalistiche pulsioni amorose ed il cupio dissolvi di una fine inevitabile. Con questo Undine (nome proprio di ninfa acquatica, ma anche personale della bella protagonista) ci si muove tra le suggestioni equoree già suggerite da Yella, in cui lo spirito elementale di limacciose profondità lacustri sembra incarnarsi in un ideale di donna/mostro condannata a pagare a caro prezzo la sua scelta terrena, tra concessioni senza riserve all'amore per un uomo e lo scotto di una subordinazione di genere da cui non sembra esserci via d'uscita. Nel parallelo che si instaura poi tra vita professionale e vita privata, l'ulteriore suggerimento di una tesi antimodernista, tutta proiettata sulla contaminazione tra allegoria del mito e tangibilità della Storia (nei plastici, nelle planimetrie, nella narrazione dell'evoluzione urbanistica di una città che ha attraversato le tumultuose vicende di alterni potentati), laddove l'eterotopia (cronotopia) di un ex palazzo imperiale riconvertito in un moderno museo del XXI secolo sia il paradosso architettonico di un progresso impossibile, allo stesso modo di come la vicenda di amore-morte della protagonista rinverdisce il rito di un sacrificio d'amore condannato a ripetere ciclicamente il suo inevitabile epilogo. A differenza di Yella, dove pure questa ambiguità del reale attraversato dalle presenze fantasmatiche di una realtà altra (e già compiuta) asseconda una vicenda in cui il sentimento di ineluttabilità scorre carsicamente lungo tutta la narrazione per riemergere alla fine nei poveri corpi stesi in riva al fiume, Petzold sembra concedere qui un afflato di speranza, il ribaltamento di un epilogo già inscritto nel mito che solo un estremo sacrificio d'amore è in grado di donare, ribaltando la messa in scena di una vendetta inevitabile nel coup de theatre, forse appena un po' melodrammatico, di un sentimento immortale che si rinnova e prosegue sotto altre forme. Orso d'argento per la migliore attrice a Paula Beer che trionfa pure agli European Film Awards 2020 e che non fa di certo rimpiangere l'intensa sensualità di una struggente Nina Hoss.
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