Regia di Nia DaCosta vedi scheda film
Già Noi aveva palesato vistose crepe nella concezione dell'horror di Peele, ma qui… qui veramente si arriva a toccare il fondo: Candyman non è un horror, non è un thriller, non è un “dramma sociale”, non è un “film di denuncia” – nonostante tenti disperatamente di essere ciascuna di queste cose –, dunque in definitiva cos’è? Avete indovinato: una cretinata.
Un filmetto etereo ed ectoplasmatico, dimenticabilissimo, spento e nato già vecchio, che scivola sin troppo rapidamente nel ridicolo, a causa specialmente del suo non suggerire nulla, far vedere troppo e, dulcis in fundo, per così dire, prendersi eccessivamente sul serio. Peraltro non porta neppure da nessuna parte: vedasi il fiacco e affrettato finale per credere. Chi sia in verità il protagonista lo si capisce entro la prima mezz’ora e da lì in avanti possono dirsi belle e concluse le “sorprese”. Quel che passa sullo schermo per la successiva ora è semplicemente innocuo, prevedibile e banale.
Certi registi nonché sceneggiatori dovrebbero mettersi in testa una volta per tutte che quasi sempre ciò che non si vede, ciò che incombe, ciò che striscia nell’ombra e par sempre dietro l’angolo ingenera molta più inquietudine di ciò che invece fa la sua apparizione ogni trenta secondi per squartare questo o quel personaggio. E che la ripetitività esasperata è una malattia cronica incurabile da prevenire con ogni mezzo, in quanto sennò finisce inevitabilmente per devastare l’intero impianto narrativo.
E’ forse inutile dire che è questo il caso: se tante scene di dialogo paiono inserite solo per fare brodo ed arrivare alla durata di un lungometraggio, tutte quelle slasher sono una continua e piana reiterazione, tant’è vero che si riesce sempre a preventivarne la comparsa e l’esecuzione. Insomma, risulta da subito evidente: non c’era molto da dire, ergo la domanda: a che pro produrre ciononostante l’ennesima, assurda, “rivisitazione”? Anche perché, ammettiamolo, pure il film originale non è che sia ‘sto gran capolavoro di genere. Eppure, visto oggi, col senno di poi, se paragonato a questa scemata affatto spaventevole, acquisisce quasi i lineamenti di una perla preziosa.
Visto che il film di Da Costa viceversa presenta una sceneggiatura disastrosa; una recitazione penosa e svogliata; una regia un poco di maniera (l'unica "invenzione", si fa per dire, è quella dei flashback stile "teatrino delle ombre"); una colonna sonora - specie nei titolo di testa - fastidiosa e martellante. Si salvano giuste le scenografie e la fotografia.
Al di là di ciò, in ogni caso, è necessario altresì sottolineare come le continue sparate circa il dominio “bianco” (indifferenziato, anche del muratore più povero di te, dunque…) risultino alla lunga fastidiose, figlie come sono di un Paese dove – a forza di negare le classi e la lotta di classe – si è infine giunti ad incitare convintamente alla guerra tra poveri (o tra poveri e ancora più poveri): è di nuovo tutto un bianchi contro neri contro ispanici contro asiatici, in un ginepraio ormai quasi inestricabile, in mezzo al quale (tra intersezionalità e altre menate) si è perso di vista il fatto che un padrone può essere anche nero o ispanico.
Difatti, quelli che davvero traggono beneficio dal sistema vengono lasciati convenientemente in pace da queste “rivoluzionarie teorie sociologiche” e mentre ci si scanna per “decidere” chi è “messo peggio di”, i veri dominatori continuano a vincere sul piano economico-sociale-politico, ad accumulare miliardi e a favorire la perpetua ed impetuosa ascesa d’un individualismo meschino e senza vie di scampo, a causa del quale viene cancellata l’importanza di ogni azione collettiva e di classe che non sia quella dei ricchi.
Inoltre, che tutti questi discorsi vengano proferiti, in Candyman, da una manica di protagonisti fighetti, benestanti e affatto appiedati rende il tutto solo più urticante. E pure il sedicente commento circa la gentrificazione risulta al tirar delle somme irrintracciabile, checché ne dicano certuni recensori anglofoni.
Per farla breve: non fa paura, non porta a riflettere, induce a qualche sbadiglio, si risolve in poca cosa, pertanto, davvero, a 'sto punto c’è soltanto da ritornare a chiedersi (con formula evidentemente retorica): che senso ha d’esistere e cosa hanno visto certi critici che sono riusciti addirittura ad incensarlo?
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