Regia di Yoon Sung-hyun vedi scheda film
Time to Hunt è un film sudcoreano scritto e diretto da Yoon Sung-hyun. L'opera è attualmente visibile su Netflix.
Sinossi: In un futuro prossimo la Corea del Sud attraversa una crisi finanziaria senza precedenti; l’inflazione è alle stelle ed il won coreano subisce una svalutazione significativa facendo cadere nella povertà più totale milioni di cittadini. In uno scenario così desolante, quattro giovani scapestrati decidono di assaltare la cassa di un noto casinò clandestino con conseguenze devastanti per tutti…
Uno degli ultimi talenti emersi dalla fucina coreana, ormai da oltre due decenni in continuo fermento è quello di Yoon Sung-hyun.
Il ragazzo nato ad Oakland nel 1982, in California, ma trasferitosi in tenera età in Corea del Sud ha compiuto un percorso accademico di tutto rispetto studiando rispettivamente -a Seul- all’Institute of the Arts ed all’Academy of Cinema Arts dove tra l’altro ha realizzato i suoi primi cortometraggi: Boys (2008) e Drink and Coffess (2009), selezionati in numerosi festival internazionali mentre il suo primo lungometraggio è del 2011 e si tratta del pluripremiato Bleak Night, vincitore del premio al miglior giovane regista sia al Busan International film Festival sia ai Blue Dragon Film Awards.
Yoon Sung-hyun nonostante l’incredibile successo ha in seguito faticato a trovare continuità all’interno dello star-system e dopo aver partecipato sempre nel 2011 al film ad episodi If you Weere me 5 (segmento Banana Shake), non ha più diretto nulla fino al 2020.
Time to Hunt è solamente il suo secondo lungometraggio, presentato alla 70° Edizione del Festival di Berlino con aspettative parecchio elevate non del tutto rispettate, ma procediamo con calma.
Time to Hunt è un film dalla struttura imprevedibile. Si parte da alcune velature sci-fi in riferimento alla rappresentazione di una nuova Corea dispotica, segnata da una gravissima crisi economica che ha sensibilmente aumentato il divario fra ricchi e poveri spingendo gran parte della popolazione a vivere in quartieri altamente periferici e degradati, stile favela brasiliana.
Lo scenario “futuristico” viene presto abbandonato ed il regista sembrerebbe indirizzarsi verso un “classico” heist-movie, proponendo i tipici stilemi del genere dalla formazione della banda, all’organizzazione del piano fino ovviamente alla rapina tuttavia anche stavolta il film si incanala velocemente su nuovi binari, esplorando il filone del thriller puro, inserito a partire da un furbissimo MacGuffin:
I ragazzi alla fin fine non hanno ottenuto una somma di denaro davvero estrosa tale da smuovere decine e decine di uomini intenti a dar loro la caccia, anzi non sapevano nemmeno dell’esistenza di un cavou segreto (pieno di denaro) però hanno deciso di sottrarre gli hard disk dei pc del locale (per evitare di farsi riconoscere, eliminando quindi le tracce video delle telecamere di sorveglianza) al cui interno si trovavano informazioni vitali all’organizzazione criminale, proprietaria del locale; informazioni che mai verranno recuperare dai giovani e che non interessano neppure al killer, incaricato in realtà di recuperare il tutto. Il film da questo momento si trasforma in una feroce caccia all’uomo fra Han (il killer) ed il gruppo di ragazzi, spaesati ed impauriti dall’evoluzione della situazione.
Struttura mutevole riscontrabile pure a livello registico. Yoon Sung-hyun inizia scegliendo un approccio post-moderno videoclipparo troppo patinato e poco convincente, in special modo quando ci presenta per la prima volta lo scenario urbano.
Scelta stilistica fortunatamente accantonata poco dopo e rimpiazzata da un più consono linguaggio cinematografico, estremamente solido e quadrato.
Valida la sequenza della rapina, rapida e realistica accompagnata da pochi e calcolati guizzi registici, tra cui la fuga dei protagonisti a bordo di un auto con la camera posizionata sempre all’interno dell’abitacolo che contribuisce e non poco a creare una forte tensione crescente ed opprimente.
Ottimi poi i vari gunfight, brutali, dinamici e molto tattici con il regista bravissimo a gestire ed interagire con l’ambiente, trasformandolo in un vero e proprio protagonista.
Sono davvero molte le sequenze notturne distinte da una fittissima nebbia , elemento fondamentale atto ad evidenziare la condizione vissuta dai nostri soggetti, braccati e senza via di fuga.
Tornando sull’ambiente menzione speciale alle location: povere, minimaliste, anguste ma estremamente suggestive divise fra palazzi decadenti ed abbandonati, ospedali deserti e tetri parcheggi sotterranei.
Interessante anche il modo in cui viene enfatizzata la paura e sconcerto dei ragazzi; il regista ricorre a particolariparecchio azzeccati, focalizzandosi sulle gocce di sudore che scorrono dalla fronte dei giovani, richiamando una serie di capolavori del cinema di Hong Kong da A Better tomorrow di John Woo (la primissima inquadratura) a The longest Nite di Johnnie To (ufficialmente diretto da Patrick Yau ma spodestato da To).
Terminiamo “l’analisi” registica soffermandoci sul fugace e riuscitissimo frangente onirico. Tutti e quattro i protagonisti si stanno divertendo sulla spiaggia, giocando a spararsi con i fuochi d’artificio (evidente omaggio a Sonatine del maestro Takeshi Kitano) quando improvvisamente un innocuo petardo si trasforma in un letale proiettile uccidendo uno del gruppo; subito dopo capiremo di aver assistito ad un sogno del protagonista che in qualche modo enfatizza chiaramente il suo senso di colpa. Dopo tutto è stato lui ad aver organizzato il colpo coinvolgendo tutti i membri del team, inizialmente non convinti del piano.
Time to Hunt propone altresì un lavoro di scrittura a tratti alquanto ragguardevole tuttavia si evince l’inesperienza del regista nel trattare molteplici argomenti, alcuni dei quali meritavano sicuramente maggiore attenzione.
Il monito socio-politico iniziale è intrigante e sembra quasi una sorta di avvertimento profetico del tipo «attenzione, il nostro benessere sociale potrebbe finire improvvisamente e la nostra nazione entrare in una crisi economica senza fine», ricordando un po’ la bolla speculativa giapponese dei primi Novanta. Ad ogni modo Yoon Sung-hyun accantona quasi subito il discorso politico e fin qui nulla di male, il problema (se di problema di può parlare) sopraggiunge in riferimento alla caratterizzazione dei protagonisti.
Tutti i soggetti presentano un’introspezione risicata anche se di tanto in tanto emergono elementi interessanti: l’importanza famiglia, l’ amicizia virile, la voglia di emergere o un senso di colpa soffocante sono argomenti appetibili peccato però che rimangono in superficie, dimenticati troppo presto dal regista. Infine evitabile e poco funzionale il cliffhanger conclusivo.
Prima di concludere due veloci annotazioni sul cast.
Il protagonista è interpretato da Lee Je-hoon, attore molto amato dal pubblico giovanile, noto per essersi impegnato in progetti indipendenti fra cui l’esordio dello stesso Yoon Sung-hyun.
Gli altri tre co-protagonisti sono rispettivamente interpretati dalla star Choi Woo-shik (Parasite, Train To Busan, The Witch Part 1), Park Jung-min (come Lee Je-hoon ha lavorato al primo film di Yoon Sung-hyun) ed infine Ahn Jae-Hong (Fabricated City, coin Locker Girl). Mentre nelle vesti de il killer Han troviamo Park Hae-soo, noto attore televisivo.
Ricapitolando Time to Hunt non sarà perfetto, su alcuni aspetti si poteva fare qualcosina di più (visto anche la durata non proprio esigua), detto questo è pur sempre un film rispettabile con diversi spunti rilevanti.
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