Regia di Tim Sutton vedi scheda film
A Girl Walks Home Alone at Night, come nell’omonimo film del 2014 di Ana Lily Amirpour. Ma la giovane musulmana di Funny Face, nuovo lavoro dell’americano Tim Sutton, non è una vampira come quella di Sheila Vand, ma una ragazza in rotta di collisione con gli zii che la ospitano in casa e che vorrebbero imporle un coprifuoco destinato a non essere mai rispettato. Nelle sue lunghe passeggiate notturne, Zama incrocia un altro ragazzo inquieto di nome Saul, che come lei lotta contro un potere costituito, quello di chi vuole imporre dall’alto una gentrificazione forzata, espressione di un modello di sviluppo predatorio e violento. I due, pasolinianamente difensori della “forma della città”, sono agitati da un moto armonico che reagisce ad una perturbazione dell’equilibrio con una accelerazione di richiamo proporzionale allo spostamento subìto, come oggetti ancorati ad una molla. I due seguono traiettorie indefinibili che li fanno avanzare e poi li costringono sempre a tornare sui loro passi. Sutton li segue con la macchina da presa in queste loro lunghe camminate, a volte dalle spalle, a volte attraverso carrelli laterali che ricordano quelli che accompagnavano le passeggiate di Eszter Balint in Stranger Than Paradise di Jim Jarmusch.
Se per i due personaggi principali il vuoto è innanzitutto “penetrabilità”, secondo l’accezione di Fernando Espuelas, ovvero “l’ambito in cui la vita si svolge e si manifesta il tempo contingente”, per la classe dominante quello stesso vuoto è invece “possibilità”, ovvero luogo nel quale viene proiettato il proprio desiderio “riempimento” (che si traduce in occupazione coatta). Se quindi il vuoto, inteso come vuoto urbano, è lo spazio pubblico e collettivo, nel quale vengono “esplicitati il passare del tempo e dell’azione umana”, i protagonisti del film, attraverso il loro vagabondare, ribadiscono la funzione primaria di quei luoghi e affermano la necessità dell’inutilizzato. Sutton li riprende da lontano che camminano in ampi spazi desolati: non più presenze fondamentali nel contesto, ma agenti fisici, vibrazioni meccaniche ed elettromagnetiche che interagiscono con l’ambiente circostante prima di esaurirsi. Cosmo Jarvis esprime attraverso la sua interpretazione agitata un personaggio che è prima di tutto evento molecolare, in costante vibrazione come le molecole che lo compongono, attraversato da una tensione sociale che si fa morfogenetica.
Sutton, al solito, dilata i ritmi del racconto, si emancipa dalla necessità dei dialoghi (come il precedente Dark Knight, anche questo sarebbe ugualmente comprensibile senza di essi) e fa della stilizzazione estrema la sua cifra stilistica. La differenza tra le classi subalterne (gramscianamente “marginali” e mai “fondamentali”, non essendo in grado di competere per l’egemonia) e quelle dominanti sta nel modo in cui si affrontano le cose. Infatti se i due personaggi principali parlano pochissimo e sono mossi da emozioni e pulsioni istintive, che non possono essere spiegate, i ricchi imprenditori che vogliono occupare gli spazi in cui questi si muovono parlano tantissimo e spiegano i loro piani attraverso lunghi monologhi o estenuanti conversazioni.
Il film fa di tutto per distinguere nettamente i personaggi: cambia tipo di fotografia a seconda di chi è in scena e pone tra loro e la macchina da presa materiali di separazione diversi (i vetri pulitissimi e oscurati del suv su cui viaggia Jonny Lee Miller, quelli sporchi e opachi della vettura di Saul e Zama). Pur scadendo spesso in similitudini facili e banali (le maschere come lo chador) e affidandosi pigramente ad immagini derivative per descrivere l’avidità delle classi più agiate (sesso e denaro), Funny Face marginalizza le ingenuità della propria scrittura lavorando maggiormente sugli spazi e rendendo le persone che li attraversano semplici fenomeni vibrazionali destinati ad essere abbattuti o, al massimo, impiegati per scopi utili a qualcuno o a qualcosa.
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