Regia di Judd Apatow vedi scheda film
Seppure con tempistiche disomogenee, ognuno di noi deve trovare la sua collocazione nel mondo. La maggior parte degli individui rispetta i canoni suggeriti dalla società, poi c’è il primo della classe che brucia i tempi e, infine, chi somma un ritardo dietro l’altro, protagonista di una metaforica corsa sul posto, che non ha la più pallida idea di dove si trovi il traguardo.
Nel caso de Il Re di Staten Island, il protagonista vive in una stasi apparentemente imperturbabile, destinata a subire delle sollecitazioni, urti che provocheranno esiti non sempre piacevoli. D’altronde, in casi estremi, va raschiato il fondo del barile prima di acquisire (almeno un pizzico di) consapevolezza.
Scott Carlin (Pete Davidson - The Dirt: Mötley Crüe) è un ragazzo di ventiquattro anni che trascorre il suo tempo con gli amici, anelando una carriera da tatuatore ed evitando accuratamente di far decollare il suo legame con Kelsey (Bel Powley - Diario di una teenager).
Quando sua sorella minore Claire (Maude Apatow - Questi sono i 40) si trasferisce al college e sua madre Margie (Marisa Tomei - Mio cugino Vincenzo) intraprende una relazione con Ray (Bill Burr - Breaking bad: Reazioni collaterali), sarà dapprima spinto ad assumersi le sue responsabilità e poi obbligato a darsi una vera e propria mossa.
Il Re di Staten Island è un film che gode e soffre del doppio timbro applicato a chiare lettere dal regista e dal suo interprete protagonista.
Così, da una parte ritroviamo il collaudato modus operandi di Judd Apatow, con i suoi tipici balzi d’umore che spaziano tra segmenti di ragguardevole fattura e altri del tutto superflui, dall’altra l’estrosità di Pete Davidson, popolare stand up comedian del Saturday Night Live, che immette esperienze personali, per quanto perlopiù rimaneggiate e quindi modificate.
Insieme distendono un racconto di formazione influenzato da un’elaborazione del lutto, entrambi fuori tempo massimo per l’età del personaggio chiave e la cronologia degli eventi passati, che oscilla sulle montagne russe degli stati d’animo, passando da dialoghi squinternati ma scoppiettanti per i giri di parole, a fasi toccanti che non scadono nel precipizio del buonismo, con tanto di sezioni pianeggianti, che aggiungono poca sostanza.
Un susseguirsi di vicissitudini che non va per il sottile e prende in contropiede sbertucciando le frasi (e le fasi) di rito senza peli sulla lingua, con lati umani solitamente omessi e debolezze inascoltate, con anche una dose di violenza occasionale, immancabile quando ci si aggira nelle retrovie di una nazione allo sbando.
Una centrifuga definita sulla morfologia artistica di Pete Davidson, quindi scomoda per le invettive, sguaiata nelle modalità comunicative e per nulla timorosa ma in fondo dotata anche di un cuore pulsante, che non può (e non deve) fare tombola, limitandosi a una banale schiarita che però irradia luce a sufficienza.
Dunque, Il Re di Staten Island è una pellicola esuberante e discontinua, del tutto sprovvista del senso della misura (i 135 minuti di durata sono incomprensibili, un po’ come accadde al regista in Funny People), con vuoti d’aria improvvisi e momenti di pregevole autenticità, dedicata da Pete Davidson a suo padre Scott, un pompiere deceduto durante l’intervento alle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001.
Schietto e altalenante.
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