Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Il secondo capitolo dell'ideale trilogia che inizia con "L'enigma di Kaspar Hauser" e termina con "Woyczek" è l'unico ambientato nel nostro presente, come a indicare l'immortalità e l'eternità del male e della crudeltà umani. Forse non c'era bisogno di un'operazione del genere per dire solo questo, specie se guardiamo alla forza di Kaspar Hauser, spaventosamente attuale, ma il film ha un valore intrinseco e autonomo rispetto agli altri due film, poiché se ne differenzia in non pochi elementi.
Semplice ma grandioso come solo pochi film riescono ad essere, Herzog spoglia il suo "Stroszek" da qualsiasi sottotesto intellettuale o superfluo, e fa parlare fatti e immagini, con un'immediatezza che lascia poco spazio all'onirico (diversamente dagli altri due film) se non in poche immagini accompagnate da sottofondi vari e diversificati e dalla scena della cantilena delirante del banditore d'asta verso la fine della pellicola. Una scelta, quella di aderire a un realismo più profondo, che permette un'osservazione analitica e profonda degli spazi e dei luoghi frequentati da Bruno S., Stroszek, il secondo "freak" della trilogia. Il fatto che le immagini parlino da sole è un elemento dato anche dall'intelligente messa in scena della mancanza di umanità nei compatrioti del protagonista, in Germania, in cui però sopravvive il contesto geografico e qualche frammento di umanità (la commovente sonata che Stroszek canta e suona nel portico di un isolato fatto di alti palazzi, con qualche testa interessata che si sporge per ascoltare, oppure qualche riferimento di Stroszek, nella seconda parte, a certi paesaggi tedeschi). In America, invece, luogo in cui il protagonista con un amico e un'amica si trasferiscono, è ostile sia dal punto di vista umano (una volgarità ordinaria che rende Stroszek insofferente) sia dal punto di vista geografico (i territori desolati e freddi del Wisconsin, la "raffinata" cattiveria del cittadino medio americano).
Particolare poi è, come al solito, l'approccio al personaggio, un disadattato che si rende sempre più consapevole del male, che lo vive in prima persona, e di cui è vittima. Ma Herzog si premunisce da una possibile mitizzazione, e fa il suo protagonista debole e alcolista, incapace di volere più che di intendere (poiché intende tutto benissimo), insomma un anti-eroe, come sono anti-eroi i suoi compagni di viaggio, una prostituta che nel suo trasferimento in America va gradualmente disumanizzandosi e un anziano signore che sceglie l'arma del crimine. L'America, ma non solo l'America, il mondo, sembrano destinare gli uomini alla criminalità, le donne alla prostituzione, l'essere umano alla disgrazia, come vittima di una predestinazione incontrollabile, in cui il valore del denaro ha assunto il valore di un parassita. Ma i protagonisti non si rassegnano, agiscono, si muovono, cercano di sopravvivere anche con l'affetto reciproco, finché non si sentono costretti a lasciarsi andare: in particolare, il cupio dissolvi finale, di grande effetto, è forse il punto debole del film, un po' forzato, ma forse inevitabile, per un regista che senza piangersi addosso ha lasciato spazio a un profondo pessimismo. D'altronde anche da un punto di vista narrativo Herzog evita la meccanicità della Ringcomposition, e conferisce al film un'originalità che nasce dal nulla, che riesce a venir fuori anche dal semplice disagio che il regista sa ricreare in momenti quali la presa di coscienza di Stroszek, che, senza comprendere una lingua inglese sempre più odiosa, comincia a detestare la suddetta volgarità ordinaria degli uomini più vicini a lui.
Una trilogia che sembra disposta in decrescenza, dal film più bello a quello meno riuscito (ma comunque valido). Stroszek, per la sua forza, riesce ad essere più vicino a Kaspar Hauser che a Woyczek.
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