Regia di Valdimar Jóhannsson vedi scheda film
Leggo “trama e curiosità - la parola al regista” fornite da FilmTv. Mi permetto una rettifica alla trama: Maria (Noomi Rapace sarà sempre tra le mie attrici preferite) e Ingvar (Hilmir Snær Guðnason, pessima prova per lui, che tenta di nascondere dietro imbarazza(n)ti sorrisini il non aver capito, lui per primo, chi o cosa stia interpretando) non scoprono affatto un misterioso neonato, ma in realtà lo fanno nascere essi stessi, da bravi e navigati allevatori di pecore quali sono. Siamo a quel “Capitolo uno” (il film è diviso in capitoli) durante il quale lo spettatore non vede succedere nulla, tranne “quella cosa” unica e fondamentale che lo spettatore sa essere successa, ma non gli si svela cosa sia, e che si aspetta gli venga detta con calma nei capitoli successivi. Per carità, fa parte del gioco e del mestiere; come dice il regista: “Il cinema è un mezzo audiovisivo che permette di muoverti su più livelli”. Forse però bisogna anche considerare cosa fai, a parte fotografare l’Islanda con tutta la pregevole tecnica/arte di cui indiscutibilmente disponi, intanto che ti muovi pomposamente da un livello all’altro.
Arriva un altro Capitolo. Bene. Intanto che “quella cosa” va man mano disvelandosi con tanta tecnica e poca fantasia (le leggende popolari, diciamocelo pure, sono sempre così banali...) arriva un fratello, quello di lui. “Oh, finalmente!”, sussulta speranzoso l’animo dello spettatore. Invece... ecco un innesto narrativo assolutamente inutile, superfluo, ininfluente su tutti i livelli, un riempitivo da mestierante, che non avrà nessun ruolo se non quello di strapparci una risata allorquando il fratello rimane impassibile davanti al “misterioso neonato” come se si fosse trovato davanti ad un qualunque pargoletto dello Zecchino d’Oro. Vabbè, passi.
Capitolo Tre (o Quattro, non ricordo... alla fine, insomma). Come fai a dare “una fine” a una cosa che non esiste? E infatti non c’è nessuna fine. Dopo una breve partentesi catartica sbrigativamente messa in piedi (anzi in ginocchio) davanti a poche croci piantate nel ghiacciato terreno, sul film cala la forbice, la censura, il taglio netto. Nessun finale, al suo posto i neri titoli di coda. Passiamo anche questa. Santa pazienza.
E però basta! Sui titoli di coda, La Sarabanda tratta dalla Sonata in Re Minore HWV 437 di Handel, abusatissima tanto al cinema quanto in tutti gli altri livelli audiovisivi possibili ed immaginabili, agli spettatori come me fa veramente cadere le braccia. E finisce per stimolare una certa voglia di mangiare carne di castrato. Alla brace, così, tanto per scaldare l’ambiente.
Film inconcepibilmente concepito. Mi spiace giusto per la Rapace, che ne è anche colpevolmente produttrice.
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