Regia di Masaki Kobayashi vedi scheda film
Masaki Kobayashi è un regista molto poco noto qui in occidente, la cui fama è stata oscurata da Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa come massimi esponenti del cinema classico Giapponese, non avendo neanche l'onore di una riscoperta a-posteriori come avvenne per le opere di Yasujiro Ozu negli anni 70'; uno dei motivi risiede essenzialmente nel fatto che le opere del regista non abbiano avuto una gran distribuzione qui in occidente ed in generale la natura fortemente anti-autoritaria e fortemente politica del suo cinema, gli crearono non pochi ostacoli in patria, visto che Kobayashi ha sempre usato il passato come chiave per interpretare le problematiche del presente, con la monumentale trilogia La Condizione Umana (1959-1961), il regista emerge definitivamente dall'anonimato in cui era relegato negli anni 50', per portare sul grande schermo il progetto della vita, basato su un romanzo Giapponese, ma in parte anche sulle medesima esperienze dello stesso Kobayashi, che negli anni 40' venne arruolato come soldato e spedito in Manciuria, ma ebbe molte rogne per le sue idee pacifiste e socialiste, venendo poi fatto prigioniero verso la fine della guerra, per essere liberato solo nel 1946.
L'argomento della seconda guerra mondiale è tabù in Giappone, con un generale revisionismo storico in materia, appoggiato esplicitamente della destra nazionalista ed in ultimo da parte del premier Shinzo Abe, che anno dopo anno stanno portando sempre più ad una rimozione della memoria dei crimini di guerra dei giapponesi, specie verso i coreani ed i cinesi, esaltando come eroi nazionali delle personalità che non furono altro che spietati esecutori di pulizie etniche verso i popoli asiatici che non si prostravano alla grandezza del Giappone. Masaki Kobayashi già negli anni 50' sentiva che la società stava tacitamente rimuovendo il passato, con la complicità della classe politica, così imponendosi con gli studi di produzione della Shochiku, riuscendo a girare un'affresco epico sugli eventi bellici del Giappone in Manciuria, non solo per l'ambizione profusa nell'opera ma anche nella durata che raggiunge le 9 ore e 40 circa di tutte e tre le parti della pellicola, che uscirono separatamente ma nella mia recensione tratterò unitariamente perchè in fondo è un'unica grande storia divisa solo per esigenze distributive (nessuno sarebbe andato a vedere un film di tale durata al cinema, ma tre film con 3 ore di durata ciascuno circa invece si).
La prima parte della trilogia ha il titolo Nessun Amore è Più Grande, oltre ad essere la pellicola più lunga nella durata (circa 3 ore e mezza) è l'unica delle tre che giunse a suo tempo in Italia seppur tagliata di circa 40 minuti, adesso l'edizione della A/R Production ci porta tutte e tre i film in un'unica custodia, colmando finalmente una lacuna che si trascinava da troppo tempo. Siamo nel 1943 in Manciuria, Kaji (Tatsuya Nakadai) finalmente si sposa dopo tanti tira e molla con Michiko (Michiyo Aratama), per evitare l'arruolamento decide di accettare l'incarico di supervisore in una miniera dove i giapponesi sfruttano prigionieri cinesi e coreani, per procurarsi materia prime necessarie allo sforzo bellico del paese e abbattendo i costi di produzione derivanti dalla manodopera. Kaji ha simpatie di sinistra, venendo visto con sospetto e scetticismo dai dirigenti della compagnia industriale, ma si fidano dell'uomo per aumentare la produzione del 20%. Kaji cerca di opporsi, a volte con successo ed altre meno, alle violenze sistematiche delle guardie giapponesi contro i prigionieri cercando di accattivarsi la loro simpatia e la loro fiducia, in modo da ottenere un aumento della produzione cercando di migliorare le loro condizioni lavorative con alloggi migliori, un vitto di miglior qualità e di tanto in tanto procurando loro dei divertimenti tramite delle prostitute residenti lì vicino. Alcuni come Chen si fidano di Kaji, mentre altri come Koe mostrano un giustificato atteggiamento sprezzante verso l'uomo che per lui resterà nient'altro che un "demone giapponese"; Kaji è combattuto tra l'applicazione dei suoi ideali socialisti e la realtà amara dei fatti, la dialettica umanistica alla base del tema di questo primo capitolo scinde il protagonista tra due estremi inconciliabili, il sentimento ed il dovere. Ogni tentativo di miglioramento introdotto da Kaji, viene frustrato dalle quotidiane violenze da parte dei suoi connazionali e dalla sfiducia crescente dei cinesi; un trattamento migliore non può cancellare il fatto che non solo sono dei prigionieri, ma anche il fatto che sono sistematicamente discriminati dall'invasore.
Questo primo film della trilogia è giustamente il più celebrato e quello che fece più scandalo appena uscì in Giappone perchè denuncia senza mezzi termini i crimini di guerra del paese contro gli altri popoli asiatici, Kobayashi nel 1959 sbatte in faccia allo spettatore, la scandalosa opera di rimozione che all'epoca era già messa in moto da parte di tutto il suo paese, dove le voci isolate come quella di Kaji sono represse da un sistema nazional-fascista, giungendo ad un finale potentissimo di solidarietà reciproca mettendo in nuce il seme di una possibile quanto utopica unione tra popoli, ma Kaji pagherà tutto questo in prima persona venendo punito con l'arruolamento coatto, vagando nel finale su un terreno brullo in fuga da una prostituta cinese che gli impreca contro.
La seconda parte della trilogia, Il Cammino verso l'Eternità, è ambientato nell'arco tra il 1944 ed il 1945 ambientato in un campo di addestramento militare con Kaji sottoposto all'addestramento militare, continuamente vigilato e frequentemente punito per le sue simpatie comuniste, che lo portano a ribellarsi in continuazione contro l'autorità dei suoi superiori e dei veterani dell'addestramento, beccandosi continui schiaffoni e percosse. Indubbiamente meno originale e più "risaputo" se visionata oggi, questo secondo capitolo è tra i primi film a mostrare impietosamente la dannosità dell'ideologia militare fascista, con frequenti abusi fisici e psicologici tra i commilitoni nei confronti dei soggetti più deboli, episodi di nonnismo ed una generale divisione in gradi, gerarchie e anzianità, dove le reclute poste in basso alla piramide "sociale" vengono continuamente vessate, senza però arrivare a sviluppare un meccanismo di solidarietà o di empatia, poichè in futuro diventando dei veterani, faranno lo stesso nei confronti dei novizi, immettendosi in un circolo vizioso senza fine. Se nel primo capitolo la fotografia era sempre luminosa nel cercare una possibile utopia solidale tra popoli differenti, nel secondo capitolo le tonalità si fanno molte più cupe e tetre; Kaji mano a mano viene sempre di più logorato dall'addestramento militare, che mira a distruggere le sue idee socialiste per sostituirle con un forte nazionalismo devoto fino all'ultimo ad una causa oramai totalmente persa da mesi se non da anni.
Il fanatismo nipponico porterà il paese ad una autodistruzione totale, che qui viene messa in scena nell'ultima parte con una imponente battaglia in cui Kaji inviato al fronte per le sue intemperanze, si ritrova l'onda d'urto inarrestabile dell'Armata Rossa, che nell'Agosto del 1945 sfonda le deboli linee di difesa nipponiche in Manciuria cogliendole anche di sorpresa per l'improvvisa dichiarazione di guerra da parte dell'Unione Sovietica. Il paesaggio devastato dai carri sovietici si lega con quello brullo e desertico del precedente film, così Kobayashi conclude entrambe le opere con il vagare di Kaji all'insegna quindi di una reciproca circolarità.
La terza ed ultima parte, La Preghiera del Soldato, è una lunga quanto sofferta elaborazione della sconfitta. I sovietici sono dilagati oramai in Manciuria penetrando in profondità, l'esercito imperiale giapponese è distrutto, con le poche unità ancora esistenti allo sbando ed in balia di sè stesse, dove ogni comandante praticamente agisce come meglio crede. Kaji oramai si muove sempre meno in funzione dell'applicazione dei suoi ideali e sempre più in funzione della sua volontà di ritornare a casa dalla sua Michiko; l'inferno è alle spalle ora c'è un purgatorio infinito dove c'è la resa dei conti, Kaji ed altri suoi commilitoni lungo il percorso incontrano civili o altri soldati nipponici allo sbando, cercando un modo di evitare le forze sovietiche e le vendicative quanto agguerrite forze di guerriglia cinese molto ansiose di sistemare i conti con l'odioso occupante oramai sconfitto, dopo oltre un decennio di sopprusi e discriminazioni.
Nel terzo capitolo la regia di Kobayashi si eleva risultando la migliore della trilogia, abbandonando i canoni del cinema classico largamente adoperati nei due precedenti capitoli, per adottare uno stile rarefatto, con carrelli in avanti e riprese che donano un'atmosfera sempre più esistenziale, intima e alienante al vagare di un Kaji devastato nell'animo per le uccisioni compiute, venendo illuminato con luci "artificiose" che creano un teatro dell'anima, dove l'uomo mostra la totale disillusione verso gli ideali socialisti dei sovietici, che nonostante la loro ideologia nobile, hanno violentato larga parte delle donne giapponesi e sottoposto frequentemente a maltrattamenti i prigionieri nipponici. Kobayashi sviluppa quindi la sua poetica sull'ipocrisia del potere, che si fa scudo dei valori e delle ideologie al solo fine di perpetrare sè stesso ed il proprio dominio sulla massa (emblematico il montaggio sull'asse del ritratto di Stalin nel campo di prigionia sovietico). E' il capitolo più pessimista del regista, totalmente sfiduciato da una possibile evoluzione in senso democratico e critico del suo paese, che nonostante una batosta distruttiva come quella del secondo conflitto mondiale, alla fine preserva efficacemente, tramite le figure di Noge e Kirihara, la propria classe dirigente e di conseguenza lo status quo, distruggendo poco a poco chi come Kaji può essere il vero vento di cambiamento.
Può esserci qualche piccolo scompenso nell'arco della trilogia inevitabilmente data la mastodontica durata, ma il ritmo non manca mai, nonostante la parte prettamente bellica d'azione vera e propria circoscritta nell'ultima mezz'ora del secondo film e a sprazzi piccoli nel terzo film, una pellicola che ottenne critiche lusinghiere e un grande successo ai botteghini in Giappone, lanciando nell'olimpo Kobayashi e l'attore Tatsuya Nakadai. Un capolavoro assoluto del cinema di questo regista anti-sistema, che non ha niente da invidiare ai grandi del cinema mondiale, le cui opere finalmente stanno venendo riportate alla luce nel nostro paese.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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