Regia di Albert Pintó vedi scheda film
I film sulle case infestate sono ormai più che inflazionati, sono solo una strategia di mercato per monetizzare il genere horror e spremere fino alla fine questo filone degno di tanti titoli di culto di cui non c’è affatto il bisogno di nuovi insulsi e addomesticati epigoni. Il genere si trascina, è vero, ma proprio dalla Spagna – che dal 2002 di Darkness, di Jaume Balagueró, aveva già dato una sterzata al genere in chiave europea e con taglio spagnolo [barocchismi, esperpento, carna(scia)lità, etc…] – arriva Malasaña 32, di Albert Pintó, che pur giocando sugli stereotipi del genere haunted house ha saputo giocare con i topoi e con i cliché tipici, apportando anche idee totalmente assenti dai titoli precedenti.
Malasaña 32, che pecca solo per non approfondire visivamente il tema carnale, al classico mito della casa infestata da un’anima in pena che assedia la famiglia da poco trasferitasi, innesta con successo tematiche molto europee e nello specifico identificative della cultura spagnola, o se vogliamo dei paesi cattolici latini, Italia compresa. Non a caso siamo nel 1976, Francisco Franco è morto da un anno, un’epoca però in cui nonostante la possibilità di una “transizione” sopravvivono i precetti cattolici ultraconservatori che hanno fatto la loro parte nella base ideologica del franchismo. La famiglia in questione, seppur con figli, non è una famiglia benedetta dal matrimonio perché frutto di un amore proibito che ha costretto padre e madre a traferirsi dal piccolo paese sperduto alla vivace Madrid di fine anni settanta. Inoltre, i bambini e gli adolescenti, sono ancora l’oggetto del desiderio della mostruosità, un’innocenza che la Guerra Civile prima e la dittatura dopo hanno corrotto e che nell’immaginario fantastico spagnolo è sempre in pericolo. L’eredità del franchismo e dell’asfissiante religione cattolica imperante, sono il motore narrativo del film, ma c’è un elemento in più, destabilizzante, nuovo, inaspettato, che impreziosisce la tematizzazione della pellicola. Dopotutto, l’identità resta uno dei temi più importanti del cinema spagnolo, ma anche di molto cinema horror, pertanto il loro utilizzo non può che essere già un’intenzione apprezzabile. Soprattutto se il film vince anche la sfida estetica. Infatti, non solo il corpo iperesteso di Javier Botet dona una fisicità orrorifica al profilmico che il digitale può solo sognare, ma plasmando con luci, ombre e filtri un arredamento labirintico tanto come l’universo identitario di cui la storia tratta, dà una forma estetica al film che è il corrispettivo di un contenuto viscerale, intimo, fetale.
E poi, dettaglio non trascurabile, appare inaspettatamente Concha Velasco e tutto si impreziosisce di nuovo.
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