Regia di Warren Beatty vedi scheda film
Warren Beatty dirige e interpreta un film inquieto, vitale, tutto a tempo di rap Siamo sulla soglia di un nuovo millennio, proclama pomposamente l’attacco dei discorsi elettorali del senatore Jay Bulworth che, alla vigilia delle primarie del 1996 in California, sta tenendo a freno i possibili rivali di Clinton. Un tipico politico all’americana: generazione kennediana, ex bello, disinvolto come un divo nell’offrirsi al pubblico, alla televisione, ai giornalisti. Solo che stanchezza, superlavoro, insonnia e, sotto sotto, una vita che non gli piace per niente, fanno saltare l’equilibrio del senatore che, dopo aver sottoscritto un’assicurazione miliardaria a favore della figlia, paga un killer perché, nel corso della campagna, lo uccida. E, finalmente libero, comincia a dire la verità, dappertutto, in televisione, in chiesa, nei banchetti dei finanziatori ebrei-hollywoodiani, tra i neri del ghetto. Verità, sgradevoli, aggressive, spudorate, sfottenti, che rivelano tutti gli angoli e le intenzioni oscure della politica: le dice in rima e a tempo di rap. L’idea del rap, a chiunque sia venuta (a Beatty o al cosceneggiatore Jeremy Pikser), non è solo brillante, ma anche brillantemente sostenuta, e riesce a trascinare nella sua demenza il ritmo del film. Così, l’assunto idealistico liberal (una chimera ormai tramontata della politica americana, travolta da troppi scandali e troppe rivelazioni) finisce per funzionare ancora, non fosse altro che per un senatore sconvolto dall’esaurimento e per un gruppetto di neri. Come funzionano le gag “autobiografiche” di Beatty (l’ovvio rimando alla sua carriera di playboy e, soprattutto, la scena in cui lo scambiano per Clint Eastwood e George Hamilton, suo giovane rivale romantico degli esordi, nei primi anni ’60) e, in generale, l’atmosfera del film. “Bulworth” è un film un po’ sbalestrato, sovreccitato, troppo entusiasta per l’inevitabile cinismo contemporaneo, cucito insieme, letteralmente, dal filo spezzettato del rap. Ma è anche un film che riesce a ritrovare quella vitalità inquieta e quell’ironia autolesionistica che caratterizzavano anche gli esemplari imperfetti del cinema americano anni ’70. Per uno come Beatty, che è stato McCabe, John Reed e il parrucchiere di “Shampoo”, “Bulworth” sembra quasi un ritorno a casa.
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