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La terra dei figli

Regia di Claudio Cupellini vedi scheda film

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La recensione su La terra dei figli

di mck
7 stelle

Cruento, e/ma senza c(r)uore, il film attraversa molti dei luoghi comuni che delinenao il genere post-apocalittico, mettendoli in fila, ed in parte rivitalizzandoli, e organizzando così un prologo (riassuntivo, veloce, compresso) ad una storia che spetterà al volenteroso spettatore, eventualmente, proseguire.

 

Sopravvissute ai Veleni, le Parole, stanno.
Grafemi segreti come miliari prime pietre d’inciampo.

 


Claudio Cupellini (padovano, classe 1973), dal segmento “la Donna del Mister” (con Inaudi, Rohrwacher, Foglietta, Impacciatore e Degli Esposti) conteuto in “4-4-2 - il Gioco Più Bello del Mondo” ad “Alaska” (con Elio Germano), passando per l’improbabile e a tratti improponibile “Lezioni di Cioccolato”, il più tetragono e rifinito “una Vita Tranquilla” (con Toni Servillo) e una dozzina di episodi per tre stagioni di “Gomorra”, ribalta con questo suo quarto lungometraggio, “la Terra dei Figli” (2021), tratto - coi sodali da sempre Filippo Gravino e Guido Iuculano alla sceneggiatura - dall’omonimo graphic novel del 2016 di GiPi (Giacomo Pacinotti) del quale mantiene l’anima…

“Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più.”

…intatta, anche se trasposta, l’amanuense (che tale rimane in entrambe le occasioni, fatto di carta, inchiostro, lacrime, sudore e sangue) assunto di un altro recente lavoro cinematografico (seriale, 2021) tratto da un’opera letteraria (romanzo, 2015), ovvero “Anna” di Niccolò Ammaniti, ché là ove la Madre redigeva una protocollare eredità sotto forma di almanacco-manuale di sopravvivenza per la propria discendenza, pur se condannata (?) in partenza, qui invece il lascito testamentario del Padre è un autoanalitico sfogo segreto a guisa di diario non destinato agli occhi mantenuti analfabeti della prole cresciuta post-Evento local-globale.

Altra ossimorica dicotomia superficialmente osservabile è quella che vede contrapporsi due differenti espressioni dell’amore paterno: quello sacrificale aprioristicamente declinato ferino del film in questione e quello invece scopertamente amorevole (in un mondo egualmente regredito, dal PdV umano, e molto più malmesso, da quello ambientale) del “the Road” di Cormac McCarthy, con “Light of My Life” di Casey Affleck (sempre dal PdV del rapporto genitore-figlio, non riguardo alle caratteristiche specifiche dello sfondo apocalittico in sé: in “la Terra dei Figli” l’infertilità come effetto dei Veleni rimane un punto ambiguo) a mezza via, assieme allo "Skammen" di Ingmar Bergman (figli in nuce) e a "le Temps du Loup" di Michael Haneke (amore materno).

Finalmente è uscita una versione drammatica di “2061: un Anno Eccezionale” (un film che non ha nemmanco il coraggio di intitolarsi “eccezzziunale”: ah!, la kænsœlh kœlchœrh!1!1!), e finalmente una catastrofe ha spazzato via il Veneto antropizzato e il suo cazzo di bilanciere di asfalto, cemento, amianto e lamiera, mentre della Lombardia e del Piemonte non è dato sapere - la risalita non giunge nemmeno lontanamente vicino al ponte della Becca, ed anzi la narrazione s’interrompe ancora in pieno Polesine: le province di Rovigo e Ferrara, la laguna di Chioggia, i dintorni di Goro e Comacchio, i boschi allagati dela Mesola e l’esoscheletro della dismissione in (non) atto della Centrale TermoElettrica (gasolio e bitume) di Porto Tolle interpretano il corso del grande fiume Po disarginato(si) fino a recuperar(n)e l’antico alveo -, ma si auspica che lo stesso destino ne abbia fatto terra bruciata, o allagata, o comunque resa devastata e incognita per le umane genti: Hic Sunt Polentones.

 


E finalmente una versione fantascientifica dello splendido “Notte Italiana” di Carlo Mazzacurati, A.D. 1987, che al contempo è pure un prologo a “il Primo Re”: Papozze Caput Mundi.

Leon de la Vallée (classe 2001) regge e supera la prova sulla lunga distanza. Paolo Pierobon delimita ogni eccesso e tratteggia eccellentemente un personaggio tanto respingente quanto - col senno di poi - complesso. Maria Roveran ("Piccola Patria", "Questi Giorni", "Resina") è la radice esposta di quella terra. Fabrizio Ferracane (i recenti AriaFerma e l’Arminuta) e Valeria Golino offrono una caratterizzazione più marcata, ma congeniale ai ruoli. Valerio Mastandrea in questo caso recita principalmente col corpo, la postura, l’andatura, e porta a casa con mestiere e sapienza la parte. E dopo quasi 10 anni di assenza cinematografica (a parte una piccola parte nell’ottimo “Martin Eden” di Pietro Marcello) è un piacere ritrovare Maurizio Donadoni (il Futuro è Donna, l’Ora di Religione, il Regista di Matrimoni), qui al mostruoso fianco fraterno di un altro grandissimo teatrante quale è Franco Ravera (la Ragazza del Lago, Boris, Noi Credevamo).

Il binomio composto da Gergely Pohárnok (“Taxidermia”, poi “Miele” ed “Euforia” di Golino, e il prossimo Crialese de “l’Immensità”) alla fotografia e da Giuseppe Trepiccione (“Zoran, il Mio Nipote Scemo”, “Fiore”) al montaggio, ben rodato durante i precedenti tre film del regista, funziona, mentre le musiche questa volta sono affidate a Francesco (in arte) Motta e il sound design è mix-ingegnerizzato da Taketo Gohara, che sa fare il suo mestiere. Produce Indigo (Giuliano, Cima, Calori) con Wassim Béji e la coordinazione di Rocco Messere.

Claudio Cupellini tenta di ricondurre alla loro funzione di vettori & motori del Sapere & Conoscere (adattarsi, applicare, trasformare, utilizzare) le Parole sparse a Delta e reduci dal Disastro - chiamato e descritto semplicemente con il suo nome comune, popolare, volgare: i Veleni - incanalandole in un (Dis)Corso navigabile, lineare e fluente, e se non fosse che ci s’innamora dei personaggi soltanto alla fine (non per demerito attoriale, ma per concentrazione di eventi risaputi), solamente là dov’e quando si vorrebbe che il film (non iniziasse veramente, ma) continuasse a scorrere sempre più possente e impetuoso (il che non significa “azione”, ma “empatia”), risalendo l’asta del fiume, oltre-Zona, alla ricerca di una sorgente che smuova un po’ le acque morte, chiuse a protezione, impaludate del dopo-Catastrofe (nella quale i tabù vengono disconosciuti e infranti e i totem dilagano ad ogni ripa ed ansa), sfociando nella possibilità di realizzare una nuova famiglia, ci sarebbe riuscito in pieno: non è una questione di non-finale che termina cullato dal dolce rollio di una placida corrente, ma di enunciazione di una mitopoiesi già conosciuta e di archetipi già navigati.

 


Cruento, e/ma senza c(r)uore, il film attraversa molti dei luoghi comuni che delinenao il genere post-apocalittico, mettendoli in fila, ed in parte rivitalizzandoli, e organizzando così un prologo (riassuntivo, veloce, compresso) ad una storia che spetterà al volenteroso spettatore, eventualmente, proseguire.

* * * (½) ¾  

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