Regia di Ludovico Di Martino vedi scheda film
Tentativo interessante di riportare l’action contemporaneo in Italia, puntando sui modelli produttivi americani e (soprattutto) francesi (mi vengono in mente certe produzioni di Besson), e cercare di rivitalizzare così il nostro cinema di genere (dietro all’operazione infatti c’è non a caso la Groenlandia di Matteo Rovere insieme alla Warner Bros Italia) La belva del quasi esordiente Ludovico Di Martino ha il merito di alcune buone intuizioni (a partire dalla costruzione del protagonista e dalla scelta dell’attore per interpretarlo) ma che deraglia nella sua scarsa originalità e nella scarsa aderenza dei modelli di partenza a un contesto veramente italiano.
Non è un caso, infatti, di un film con i suoi luoghi che in realtà sono non luoghi, con Di Martino a girare volutamente in una periferia astratta, che riconosciamo per la parlata romanesca dei suoi attori e da alcune tratte, ma senza nome e ben poco riconducibile o ascrivibile a una qualche realtà italiana, con la la tendenza di internazionalizzarne qualsiasi contesto (tra partire di Rugby e incursioni al fast food) ma con una trama ben poco originale e ancora troppo derivata dai suoi modelli di riferimento che diventano ben presto un limite evidente una volta che il gioco si fa troppo ripetitivo e la voglia di contaminazione esonda nel superfluo e nell’ovvio.
Scritto dallo stesso regista insieme a Claudia De Angelis e Nicola Ravera, La belva sembra infatti aver stroncato sul nascere qualsiasi tentativo di cercare in qualche modo un possibile dialogo con il passato dell’action italiano, specie quello degli anni’70, cercando e trovando invece i propri padri putativi esclusivamente oltre confine, in un omologazione di genere e di epica molto standardizzata che, se da un punto di vista e tranquillizzante per le politiche dello streaming internazionale (il film è distribuito da Netflix), dall’altro appiattisce il panorama di genere con prodotti tropo simili tra loro.
Ed è esattamente quello che succede all’opera di Di Martino.
E seppur non perfetto La belva, con il suo concentrarsi più sull’azione che non sul dialogo e senza disprezzarne poi troppo il risultato, come purtroppo siamo spesso abituati a fare, risulta comunque quasi come una rivoluzione copernicana, sfidando , nonostante tutto, gli standard attuali del genere e riuscendo addirittura a dialogarvi come nel piano-sequenza di metà film modellato su tutta una serie di riferimenti che vanno dal fin troppo ovvio Teken di Liam Neeson alla Bionda Atomica di David Leitch, dal Polar di Jonas Akerlund fino ai lavori di Nicolas Winding Refn (il giubbotto di Gifuni alla Drive o certe ostentazioni visive al neon della pellicola).
Parte maggiormente riuscita della pellicola rimane comunque l’interpretazione di Fabrizio Gifuni che non si limita soltanto alla fisicità, in un ruolo quasi muto e perennemente sovraccarico dal gravame del passato, ma che ne lascia intuire un vissuto doloroso che, appena sotto la superficie sembra comunque sempre pronto ad esplodere.
Più squilibrato il resto del cast, tra maschere efficaci come quella del vicequestore interpretato da Lino Musella (e con le forze dell’ordine per una volta, trattandosi di una produzione italiana, trattate con un certo rispetto) a quella troppo caricaturale di Andrea Pennacchi (di recente in L’incredibile storia dell’Isola delle Rose), spesso bravo e convincente ma in questo caso al servizio di un personaggio troppo cartoonesco anche per una pellicola come questa.
VOTO: 5,5
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