Regia di Ritwik Ghatak vedi scheda film
Rientra nel filone del neorealismo indo-bengalese inaugurato da Satyajit Ray, ponendosi l'obiettivo di narrare la vita delle comunità di pescatori che abitano del rive del fiume Titas nel Bangladesh, in una struttura narrativa che vede diversi personaggi passarsi il testimone mentre il grande fiume funge da elemento di raccordo.
Il film del 1973 di Ritwik Ghatak rientra nel filone del neorealismo indo-bengalese inaugurato da Satyajit Ray con “Il lamento sul sentiero” e gli altri due capitoli della “trilogia di Apu”, ponendosi l'obiettivo di narrare la vita delle comunità di pescatori che abitano del rive del fiume Titas nel Bangladesh.
In una struttura corale allora originale, il film non si focalizza dall'inizio alla fine su uno o più protagonisti, ma vede diversi personaggi passarsi il testimone nel corso delle due ore e mezza di durata. La storia inizia con il matrimonio tra un pescatore e Rajar, la ragazza di un altro villaggio casualmente incontrata; poi, dopo la caduta nel fiume della donna nel corso di un tentato rapimento, fa un salto in avanti a quando ella col figlio Ananta ormai decenne si mette al ricerca del compagno perduto, viaggiando, sempre via acqua, verso il suo villaggio di origine, dove fa amicizia con una giovane vedova, Basanti, che diviene la protagonista della seconda metà del film; il tutto con qualche altra più breve digressione sulle vicende di altri villaggi i cui abitanti vengono incontrati per caso dai protagonisti. Nella parte finale viene dato spazio all'analisi sociale, con i conflitti tra le povere comunità di pescatori ed i ricchi strozzini che le taglieggiano e gli scontri coi contadini per le terre liberate dalla “piaga biblica” dell'essiccamento del fiume Titas, che alla fine è l'unico grande protagonista a scorrere durante l'intera pellicola e la cui scomparsa segna la distruzione di quell'intero mondo.
Il film è apprezzabile principalmente per lo sguardo sincero e partecipe, tipicamente neorealista, con cui mostra l'esistenza delle comunità dei rivieraschi, la loro cultura, tradizioni e mentalità, la loro costante lotta per la sopravvivenza in un ambiente totalmente dipendente dalla ricchezza rappresentata dalle acque del fiume, fonte di sostentamento e via di trasporto e commercio. Senza tuttavia scadere nell'idealizzazione apologetica di quel difficile contesto sociale, di cui ci mostra pure gli aspetti meno lusinghieri, come il pestaggio del matto del villaggio o la crudeltà con cui la madre di Basanti cerca di sbarazzarsi del peso economico di Ananta dopo la morte della madre.
Il regista ci immerge in questo mondo apparentemente immutabile e fuori dal tempo attraverso la nitidezza di un bianco e nero potente ed espressivo, componendo immagini di bellezza poetica, ad esempio nella desertificazione finale o nella trasfigurazione di Rajar nella dea madre Bhagwati. Originali diverse scelte di inquadratura, come quella della zuffa della giovane Basanti con la madre, in un contesto di generale attenzione all'espressività del primo piano, alternato ai campi lunghi sulla distesa delle acque solcate da piccole imbarcazioni.
Rispetto alle opere di Ray tuttavia questa risulta meno compatta e talvolta i passaggi ed interconnessioni tra le diverse sezioni risultano non perfettamente cuciti insieme, soprattutto nel caso delle digressioni che fuoriescono dalla trimurti principale Rajar-Ananta-Basanti, che appaiono appiccicate più che organicamente inserite nel flusso narrativo.
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