Regia di Garrett Bradley vedi scheda film
Bradley realizza un documentario di discreto impatto che ha l'ambizione di denunciare ed avviare un confronto non solo sul razzismo ma anche più in generale sulla rigidità dell'impianto penitenziario statunitense.
La gente disperata fa cose disperate. Ed è per questo che Robert e Sibil, da poco sposati e alla ricerca del denaro necessario ad aprire un negozio di abbigliamento hip hop a Shreveport, in Louisiana, nel settembre 1997 decisero di rapinare la banca federale: il tentativo fu un fallimento, ciononostante, mentre la donna patteggiò e se la cavò con una detenzione complessiva di tre anni, l'uomo - che rifiutò di patteggiarne dodici - entrò in cella nel 1999 per scontarne sessanta, senza condizionale e con la possibilità di ricevere i parenti in visita due sole volte al mese per un paio d'ore. Da allora Sibil dedicò ogni minuto della sua vita a sensibilizzare nei confronti dell'eccessiva repressività del sistema carcerario prima di tutto i due milioni di persone che, come loro, si erano ritrovate a percorrere in direzione della galera una corsia preferenziale dovuta prima di tutto al colore della propria pelle.
Già nel precedente cortometraggio, Alone, Garrett Bradley aveva trattato il tema di una donna nera rimasta sola dopo l'arresto dell'amato seguito da una pena spropositata: evidentemente partecipe della battaglia della protagonista, in Time la regista sfrutta i tempi comodi del lungometraggio per far raccontare a lei, in prima battuta, gli oltre venti anni che vanno dall'inizio della vita insieme al marito sino al presente, evidenziando la tenacia con la quale s'è fatta portavoce di un intero popolo, imprenditrice di sé stessa, nonché moglie e madre capace di tenere da sola le redini di una famiglia; il tutto attraverso i molteplici filmati che lei registrava a futura memoria, inizialmente su cassetta, poi aggiornandosi con gli smartphone, integrandoli con interviste attuali, scorci di vita familiare, conversazioni frustranti a giudici o avvocati e telefonate a tempo con il marito recluso.
Trovando un contrappunto musicale non banale nelle composizioni per piano di Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou, suora etiope quasi centenaria (classe 1923), senza inventare nulla sotto il profilo narrativo, scegliendo di muoversi liberamente all'interno dell'intero periodo e optando di conseguenza per il bianco e nero come soluzione più semplice e naturale per salvaguardare la compattezza e l'organicità di un racconto non lineare, Bradley realizza un documentario di discreto impatto che ha l'ambizione di denunciare ed avviare un confronto non solo sul razzismo ma anche più in generale sulla rigidità dell'impianto penitenziario statunitense.
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