Regia di Remi Weekes vedi scheda film
Il terrore spurio funziona, quantomeno nella prima parte. La perlustrazione delle ombre, dei volti dietro le mura, dei rumori sinistri e della generale atmosfera di abbandono e desolazione è efficace. I momenti di paura, in altre parole, ci sono e tutto il primo tempo in generale vive di un bel crescendo angosciante. Complice anche la partecipazione emotiva offerta dal tema: due rifugiati alle prese con l’ostracismo e le mille difficoltà, per nulla disposti a tornare indietro (o quantomeno, questo è quello che pensa e ribadisce Bol).
Purtroppo però alla lunga “His House” manca quasi tutti i bersagli che aveva puntato. La seconda parte e il tremendo epilogo vorrebbero essere un punto di giunzione tra la storia e la riflessione sociale, tra il tessuto horror e la contemporaneità, un appello alla pietà e alla memoria che trascenda e al contempo rispetti il genere e le sue coordinate. Obiettivi mancati dal momento che il film di Weekes cade nella peggiore di tutte le trappole: quella del ridicolo (certo, involontario). La rivelazione finale, infatti, davvero non si perdona.
Dopo “Scappa – Get Out” e “Noi”, “His House” è il terzo horror che da tre anni a questa parte tenta di affrontare le tematiche razzial-sociali in maniera aperta e frontale. Va da sé che l’unico titolo davvero riuscito di questa ipotetica trilogia è l’esordio di Jordan Peele, quello sì un horror intelligente e multistrato. Il bis, quel “Noi” passato giustamente in sordina, soffre i medesimi difetti di questo ancora più snobbato (altrettanto giustamente) prodottucolo targato Netflix: l’accumulo metaforico che schiaccia il piacere della visione, che vuole nobilitare la materia trattata, che troppo teme la serie B e mal gestisce il citazionismo. Ma soprattutto un film senza fascino (e almeno “Noi”, invece, un certo fascino lo conservava) e senza dolore. “His House” è un’evocazione senza risposta.
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