Regia di Visar Morina vedi scheda film
Il film di Visar Morina ricapitola alcuni temi autobiografici e nello stesso tempo si pone la spinosa questione del limite oltre il quale la percezione soggettiva di relazioni interpersonali problematiche possa essere ridotta nei termini più comprensibili e oggettivi dell'intolleranza e dell'esclusione sociale.
Dipendente di un'azienda farmaceutica tedesca, il kosovaro Xhafer si ritiene vittima di gravi atti di xenofobia che compromettono la sua vita familiare e lavorativa. Credendo di individuare in un suo collega la causa degli stessi, le sue reazioni finiranno per acuire tensioni già divenute ampiamente insostenibili.
Niente da nascondere...nemmeno a Colonia
Nel segno di un cinema europeo che riflette l'onda lunga dei mutamenti sociali che hanno seguito la frammentazione politica e culturale di un continente attraversato dal conflitto balcanico, dalla mobilità lavorativa al suo interno e dal ritorno in auge di populismi assortiti, il film di Visar Morina ne ricapitola alcuni temi autobiografici e nello stesso tempo si pone la spinosa questione del limite oltre il quale la percezione soggettiva di relazioni interpersonali problematiche possa essere ridotta nei termini più comprensibili e oggettivi dell'intolleranza e dell'esclusione sociale. Il maschio apparentemente ben integrato e professionalmente qualificato interpretato dal bravo Misel Maticevic è l'ipostasi di una crisi identitaria che si rivela condizione comune di una debolezza di genere che trova nella violenza (inflitta o autoinflitta) e nell'incomunicabilità i suoi effetti più perniciosi, ma anche il sintomo non trascurabile di un latente disagio sociale che non può che trovare un corrispettivo nel retroterra solo apparentemente liberale delle moderne democrazie europee, alimentando l'ambiguità di fondo che appare come la cifra più rilevante di questo thriller della paranoia e del sospetto. L'espediente di un inquietante messaggio minatorio (certo meno astratto ed ellittico di quello del Caché di Haneke), inquadrature che rincorrono ossessivamente il protagonista ed il labirinto claustrofobico degli asettici uffici lavorativi concorrono alla teoria di un moderno pharmakos, un rituale di esilio (come suggerito dal titolo) e di linciaggio sociale che sembrerebbe non escludere nessuno (nemmeno la segretaria del capo o la moglie oberata dallo studio e dai figli) e che trova il suo culmine nel frantendimento di una mortificante riunione aziendale che potrebbe risiedere allo stesso tempo sul confine sdrucciolevole che separa la conciliazione dalla denigrazione. Se gli indizi disseminati lungo il film dovrebbero mettere sul chi va là spettatori attenti alle sfumature di un giallo che reclama sin da subito il suo colpevole principale, è proprio nella moltiplicazione dei punti di vista, che si apre nel finale a sorpresa, che si trova la chiave di una complessità relazionale irriducibile, di una responsabilità mai a senso unico , del campo minato di una integrazione sociale che richiede a tutti uno sforzo per comprendere i propri limiti e le proprie responsabilità, prima ancora di quelle che si attribuiscono agli altri. L'agnizione finale di un uovo lanciato dalle scale è quindi il viatico per una doverosa espiazione, lo scossone decisivo per il crollo di un castello di fantasie già minato dalle fondamenta e che reclama un ultimo momento di riconciliazione nell'imbucarsi alla festa a cui si sa di non meritare di essere stati invitati. Nominato al Concorso World Cinema Dramatic del Sundance Film Festival 2020 e presentato dal Kosovo come candidato agli Academy Awards 2021 nella categoria Miglior film internazionale, non è entrato nella short list da cui l'ha spuntata non senza polemiche Un altro giro di Thomas Vinterberg.
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