Nella Pavia degli anni '30, il mite scrivano comunale Carmine De Carmine (Renato Rascel), conduce la sua umile esistenza vivendo in una camera in affitto, vestendo sempre lo stesso medesimo e sgualcito vecchio cappotto, e sopportando le angherie da parte di colleghi che approfittano della sua aria mite e un po' goffa, per renderlo vittima di scherzi e goliardie varie.
Il giorno in cui il medesimo cappotto viene irrimediabilmente rovinato da un molesto collega del nostro Carmine, costui, preoccupato per il venir meno di un indumento necessario a sopravvivere alle fredde notti padane, cercherà in tutti i modi di trovare un sarto che riesca ad aggiustarlo.
Poi un giorno che lo stesso scrivano verrà a conoscenza, per puro caso, di loschi sotterfugi che coinvolgono il malizioso carrierista del Segretario comunale, suo immediato superiore, ecco che, per indurlo a tacere. il Carmine si vedrà omaggiato del premio in grado di fargli acquistare un nuovo, fiammante cappotto fatto su misura.
L'indumento, in grado di ergersi a status symbol della nuova vita del timido impiegato, porterà al nostro più dolori che soddisfazioni, fino ad essergli sottratto a forza da un ladro nella notte di ritorno dalla festa di capodanno presso la casa del Segretario comunale.
La perdita del cappotto porterà l'uomo alla disperazione, gettandolo nello sconforto e procurandogli un malessere fisico e febbrile in grado di portarlo poco dopo alla morte, dopo aver subito una plateale umiliazione da parte del Sindaco in persona.
Ma la morte, per Carmine, costituirà il viatico per una possibilità di riscatto che indurrà anche i superbi e potenti a rivedere completamente i propri comportamenti autorevoli e sprezzanti nei confronti dei poveri sottoposto costretti perennemente a subire in cambio di un minimo di sussistenza.
Dall'omonimo racconto dello scrittore russo Nikolaj Gogol, Alberto Lattuada, Luigi Malerba, Giorgio Prosperi, Leonardo Sinisgalli, col tocco surrealista e magico tipico della penna di Cesare Zavattini, danno vita ad una trasposizione che prende le distante dal neorealismo imperante in quegli anni nel cinema di casa nostra, per concentrarsi su una introspezione poetica ove umorismo e satira si fondono per dar vita ad una fiaba perfettamente integrata in un paesaggio reale e realistico che il bianco nero contribuisce a rendere ancora più minaccioso e proibitivo.
Se per Renato Rascel Il cappotto segna l'apice della propria variegata carriera cinematografica, forte di un personaggio che, per certi versi, potrebbe essere paragonato ad una variante della figura dolente e malinconica di Charlot, per Alberto Lattuada esso costituisce probabilmente l'apice della propria lunga carriera di regista.
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