Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Le vie dei festival sono infinite e in una di esse (“Certain regard” Cannes 1999) è riuscito a infilarsi questo secondo lungometraggio di Ferzan Ozpetek, sorprendente debuttante due anni fa con “Il bagno turco”. Il film, tra l’altro, contiene in sé una bella storia, quella di Safiyè, odalisca del sultano Abdulhamit (Marie Gillain poliglotta e generosamente spogliata di ogni resistenza), e dell’eunuco Nadir, un castrato che riesce ad amare ugualmente. Lo sfondo è la Istanbul del 1908, calata negli ultimi bagliori di un crepuscolo che sfalderà per sempre l’Impero Ottomano; mentre il racconto - impostato su due piani narrativi che violentano “poeticamente” la cronologia del tempo - si sviluppa dalla sala d’attesa di una stazione (negli Anni ‘50), dove Safiyè adulta racconta la sua storia; e dall’ultimo harem affollato di donne curiose e (ma) recluse. Il problema del film è che non maschera il poverismo e la sua impostazione televisiva: il che costringe a lunghi primi piani che privano le immagini di aria, di respiro, di vento rivoluzionario
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