Sorta di elegia malinconica della vita e di riflessione sul doloroso mistero del venire al mondo.
Esistono film che, pur senza aggiungere qualcosa di rimarcabile o particolarmente innovativo rispetto alla valanga di opere già realizzate, ti lasciano dentro un segno, un ricordo. Uno di questi è Nine days, lavoro sicuramente non perfetto né eccessivamente speculativo ma che si presenta con qualche originalità a corredo e che oltretutto riesce a muoversi con una certa disinvoltura su terreni tematici già ampiamente esplorati da altri registi, incentrati su senso della vita, dolore esistenziale e accompagnamento alla morte. Qui però si ribalta un po’ tutto, come la locandina lascia intuire, in quanto viene proposta una bizzarra idea sulla possibilità di una pre-vita. Ma ciò che più colpisce non è tanto la teoria in sé, puro artificio filosofico basato sulla dottrina della preesistenza, funzionale ai temi da trattare, quanto l’atmosfera di incertezza malinconica che pervade l’intero film, perché inevitabilmente si discute e si ragiona sulla difficoltà e durezza del vivere nonché sulla sensibilità che può essere affogata dal male e dalla incomunicabilità.
Colui che prova a cimentarsi in questi scivolosi argomenti è il giovane regista brasiliano-giapponese Edson Oda, proveniente dal mondo pubblicitario, autore anche della sceneggiatura, ispirata ad un episodio di vita personale, il suicidio dello zio quando lo stesso Oda aveva 12 anni. È nel 2017 che il Sundance Institute porta il regista nel suo Lab e gli consente di realizzare il lavoro, riuscendo tramite la produzione a raccogliere la bellezza di 10 milioni di dollari.
Il film inizia mostrando, sulle note di 10327 Days of Life, alcuni momenti di vita, dall’infanzia alla giovinezza di Amanda (Lisa Starrett), violinista e stella nascente protagonista di una registrazione che appare su uno dei tanti televisori vintage in funzione su una parete, tutti diversi e tutti impilati, ciascuno collegato a un vecchio videoregistratore. Ad osservare quegli schermi (pare quasi un Truman Show d’altri tempi) è Will (Winston Duke) che vive in una casa circondata da una palificata di legno totalmente isolata nel mezzo del deserto, archiviando cumuli di note scritte su qualsiasi cosa accada nei giorni di vita delle persone che registra su vecchie VHS, il tutto poi riposto metodicamente in archivi individuali.
Will, vestito da occasione per un imminente concerto di Amanda, accoglie in casa il collaboratore Kyo (Benedict Wong), quando entrambi assistono attoniti ad una scena in cui la giovane violinista, senza aver fino ad allora manifestato particolari segni di depressione, guidando la macchina, accelera e si schianta.
Will altro non è che un intervistatore, uno tra tanti giudici che periodicamente si trovano a condurre selezioni della durata di 9 giorni su aspiranti anime candidate alla vita, sottoponendole a test molto rigorosi ed evitando ogni coinvolgimento personale. Quei video che Will osserva quotidianamente non sono altro che scene di vita reale delle sue anime selezionate in passato. I nuovi candidati, nati generalmente da poche ore ma con le sembianze più disparate, arrivano di volta in volta dal deserto e si presentano bussando alla porta di Will. Si tratta di personalità assai variegate, individui a cui l’intervistatore spiega che, “sono stati presi in considerazione per l’incredibile opportunità della vita” e, se scelti, inizieranno a vivere dimenticando tutto ma rimanendo “se stessi”.
Tra i candidati ci sono Maria (Arianna Ortiz), bisognosa di amore ma opportunisticamente compiacente; Mike (David Rysdahl) un disegnatore insicuro di sé e zeppo di sensi di colpa; Alexander (Tony Hale) indolente e godereccio; Kane (Bill Skarsgard) pragmatico, violento ed impavido; ma soprattutto Emma (Zazie Beetz), affascinante donna con intuito ed acume notevoli, che suscita in Will sentimenti contrastivi ed entusiasma il suo collega Kyo.
Will è così sconvolto dal suicidio di Amanda che non si dà pace (riecheggiano temi di The Tree of Life), non comprendendo il motivo di quel gesto, pur riesaminando cassetta per cassetta ogni scena della vita della ragazza e il suo “tempo dell’infanzia”, proiettandola su una parete alla ricerca di un minimo indizio che possa chiarirgli i fatti. Nel frattempo lavora con tutti i candidati, mettendoli alla prova e sottoponendoli a svariate domande in modo a volte ostile e verbalmente violento o proponendo test situazionali molto stressanti, chiedendo inoltre loro annotazioni su cosa piaccia o non piaccia degli stralci di vita delle persone mostrate nei televisori. Eppure Emma, con la sua apertura mentale e curiosità emotiva ed il suo sincero slancio alla vita, va fuori dagli schemi dei questionari di Will, rispondendo a domande con altre domande o affermando, in assenza di necessarie contestualizzazioni, di non sapere cosa fare quando le vengono presentati i quesiti.
Ogni giorno un membro del gruppo viene rifiutato, ma Will, unico tra gli intervistatori a comportarsi in questo modo, gli offre la possibilità, quale ultimo desiderio, di poter rivivere un momento veramente significativo di cui aveva goduto nell'osservare le vite altrui; momento che Will ricrea realisticamente facendo uso di cuffie opportunamente sonorizzate, schermi mobili e strumenti meccanici, prelevati da un vecchio magazzino, per l’animazione delle scene, prima che le anime svaniscano nel nulla. Emma, che lega da subito con Kyo (il cui vero compito è osservare che Will faccia correttamente il suo lavoro), viene a sapere da quest’ultimo che Will, il solo ad aver realmente vissuto, in vita ha duramente sofferto per la sua grande sensibilità ed il suo isolamento, sentendosi del tutto invisibile al mondo. L’intorpidimento in cui si è rifugiato, a detta della stessa Emma, “lo fa sentire sicuro ma in realtà sta solo avvelenando ciò che resta di lui”. Sarà proprio Emma, in un finale assai particolare, a risvegliare Will da questo stato dormiente e a ridargli la capacità di non dare per scontato nulla di quanto gli capiti, perché lei stessa è stata in grado di cogliere tanti bei momenti in soli 9 giorni di presenza nella casa.
Nine days è caratterizzato da un notevole gusto della composizione visiva, soprattutto nelle inquadrature in campo lungo dei paesaggi (ambientati nella West Valley City nell’Utha) in cui si esalta il senso dell’isolamento della casa. Piuttosto interessanti appaiono certe soluzioni creative con la strana scelta di dispositivi tecnologici fuori tempo (i televisori CRT e le VHS) e l’uso di schede cartacee (sono banditi i computer), una sorta di modernariato che potrebbe simboleggiare la cristallizzazione nel tempo dei luoghi. Assai particolare è anche l’intenso lavoro di bricolage old style con cui Will allestisce le scenografie che ricreano con una buona dose di fedeltà gli ambienti per gli ultimi desideri delle anime scartate (qui il rimando ad After Life è palese); spicca la disinteressata generosità di Emma che, invece di sfruttare ogni ora dei suoi 9 giorni per superare la selezione, si offre di dare una mano alla realizzazione di una di queste scenografie.
Prevale in tutto il film il tema della consapevolezza del dolore della vita, quasi un ossimoro rispetto alla sua bellezza. Il più grande dubbio che tormenta Will è se i prescelti ce la faranno, dubbio che lo porta a condizionare le proprie scelte sui candidati. Per questo motivo se da un lato scarta chi non sarebbe in grado di affrontare le questioni esistenziali con la giusta profondità che meriterebbero, dall’altro tutela le sensibilità spiccate, per le quali preconizza una vita simile alla sua, fatta di sofferenza e solitudine. Alcune scene riprese nei televisori lo spiegano del resto con una certa chiarezza, quando si assiste a sparatorie e fenomeni di bullismo gratuito. Significativo a tal proposito lo scontro dialettico tra Emma e Kane su cosa ci si debba aspettare una volta superato il traguardo: “Ogni giorno qualcuno fa male a qualcun altro, ogni giorno qualcuno si toglie la vita” sostiene lui, affermazione a cui lei risponde con un disarmante “perché ti stai concentrando su questo?”, un invito ad estendere la propria capacità di osservazione evitando di focalizzarsi solo su aspetti negativi. Quanto ad Amanda, la ragazza porta dentro di sé un dolore immenso, il dolore dell’isolamento e della incomunicabilità tipici delle persone più sensibili. Eppure, nonostante quel dolore sia così grande, chi le sta vicino non ne percepisce alcun segnale, perché manca la capacità di leggerlo: Amanda è fin da piccola l’unica a ricordarsi di Will, che poi è il suo unico compagno protettivo teneramente disegnato a pastelli; le si inumidiscono gli occhi quando suona il violino dal quale sembra non volersi mai separare; e poi a 28 anni arriva al suicidio perché non riesce più a reggere l’implosione del proprio dolore, che è un insostenibile male di vivere.
Nine days non si presenta con particolari effetti speciali, pur nella sua bellezza estetica generale. Si tratta anzi di un lavoro molto parlato, con scene lunghe e proprio per questo necessariamente sorrette dall’ottima recitazione generale: Winston Duke offre una prova eccellente perché il suo ruolo è sicuramente il più complesso e per certi versi anche il più scomodo, eppure restituito in maniera credibile grazie alla coesione interpretativa; Zazie Beetz, oltre che splendida ed assai espressiva, è di una bravura straordinaria. In generale tutti i (pochi) personaggi appaiono accuratamente delineati nelle loro sfumature caratteriali e nelle dinamiche relazionali con Will, inclusi gli inevitabili sbalzi d’umore, quando gli viene comunicato che non passeranno a nuova vita. È fuor di dubbio che la parte più attraente del film sia tutta nella capacità di rendere perfettamente l’idea del forte attaccamento di ciascuno degli esaminandi al proprio sé, ciascuno a suo modo, perché in effetti Will sembra più un traghettatore di anime verso l’oblio (Burning Ghost) che uno spalancatore di porte verso un nuovo mondo. Fa infatti specie osservare come le pre-anime, in questa sorta di strambo purgatorio, abbiano paura di svanire nel nulla, terrorizzate dal distacco finale una volta giunte al capolinea. Dietro l’artificio retorico si nasconde una sorta di ammonimento sull’arida incapacità dell’essere umano, durante la propria esistenza, di cogliere i momenti belli della vita; ci si riferisce a quella sorta di bellezza crepuscolare delle piccole cose a cui fa riferimento Emma, l’unica a riempire il suo taccuino di mille annotazioni che descrivono apparenti banalità: mettersi il rossetto, sorseggiare un caffè, toccare una maglia di lana, tuffarsi in una piscina e riemergerne osservando la natura, accarezzare una spiga, guidare in un tunnel o mordere una pesca. La vita è sì un “buco di merda” ma, se la si sa cogliere, è anche quella “straordinaria opportunità” che Will descrive ai candidati.
Eppure anche nei momenti più duri, come quelli del distacco, non vi è un tono enfatico che avrebbe reso il film insopportabilmente melodrammatico; si può anzi dire che Nine days sia “soltanto” un film commovente, trasudante di emozioni, inteso come una sorta di elegia malinconica della vita e di riflessione sul doloroso mistero del venire al mondo.
Io celebro me stesso e canto me stesso E ciò che io assumo tu lo dovrai assumere Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a te…
Finale esplosivo, un po’ ingenuo ma emozionante, sui versi della lunghissima Song of myself di Walt Whitman, sorta di inno alla vita, perfettamente in linea con le tematiche del film.
L’intera colonna sonora, pienamente accordata con gli elementi narrativi del film, è curata dalle magnifiche musiche del compositore brasiliano Antonio Pinto, tra le quali spiccano alcuni notevoli capricci di violino (Denial, Amanda’s solo).
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