Regia di Lee Isaac Chung vedi scheda film
Troppe volte ci guardiamo talmente tanto intorno da non riuscire a cogliere l’essenziale, che risiede proprio al nostro fianco. Ci dimeniamo per avvinghiare quella conquista personale sulla quale abbiamo deciso di concentrare il massimo sforzo, talmente accecati da trascurare - anche inconsapevolmente e in assoluta buona fede – chi ha un disperato bisogno di una presenza attenta e premurosa, quei momenti speciali che, una volta passati, non ritorneranno mai più nelle nostre disponibilità.
In questi casi, solo una scossa apre gli occhi, ristabilendo la sacrosanta graduatoria delle priorità. Per quanto il risveglio possa essere brusco e determinare la fine di un sogno a lungo coltivato, contempla sempre anche nuove opportunità. Spetta a noi non disperarci, cogliere la palla al balzo e ripartire con propositi rinnovati e positivi.
Minari è un piccolo film americano, lontano anni luce dal marasma contemporaneo, che impartisce una lezione di vita senza ricorrere a inutili quisquilie o scen(at)e fragorose, conscio com’è di quali siano i fattori a cui non possiamo/dobbiamo rinunciare per alcun motivo al mondo.
Arkansas anni ‘80. Jacob (Steven Yeun) e Monica (Yeri Han) si trasferiscono dalla California insieme ai figli David (Alan S. Kim) e Anne (Noel Cho) per coltivare un terreno incolto.
Mentre David, con il supporto di Paul (Will Patton), convoglia tutte le sue energie per riuscire nella sua impresa, il resto della famiglia fatica tremendamente ad abituarsi al nuovo stile di vita. Nemmeno l’arrivo della nonna materna Soonja (Youn Yuh-jung) migliora la situazione, con le preoccupazioni di Monica che diventano sempre più evidenti.
Quando si presenta un bivio senza ritorno, alcuni eventi cambieranno radicalmente le carte in tavola.
Prodotto dalla Plan B di Brad Pitt e distribuito dalla celeberrima A24, Minari, già osannato sia dalla critica sia dal pubblico al Sundance Film Festival del 2020, è un dramma familiare minimalista, un esemplare di cinema indie contaminato da reminescenze orientali che introietta il sogno americano e le seconde (anche terze) occasioni.
Contraddistinto da un’intelaiatura integra e paziente, il film diretto da Lee Isaac Chung ricorre a spunti autobiografici dello stesso regista, insediandosi in un ecosistema rurale, tra immigrazione di lungo corso (quella coreana che ai tempi contava circa trentamila nuovi ingressi l’anno) e solidarietà. Disegna i personaggi con un tratto fino e calcifica la dimensione familiare, in un ritratto dolceamaro che ondeggia tra sogni e avversità, aspirazioni e dissapori, scelte e preoccupazioni. Una progressione parsimoniosa, contrappuntata da una fotografia radiosa e da note musicali all’insegna della massima delicatezza, che non ha alcuna smania di apparire, toccante ma scevra da inopportune enfatizzazioni, con un pizzico di deliziosa follia regalata dal personaggio di Soonja, interpretata in maniera magistrale da Youn Yuh-jung. Più in generale, tutti i caratteri principali vantano una descrizione puntuale e momenti da prima pagina, con Steven Yeun (Burning – L’amore brucia) focalizzato al 100% sull’obiettivo, Yeri Han pronta a esplodere (quando è sul punto di piangere a dirotto, lo spettatore vorrebbe con tutte le sue forze poterla rincuorare con un abbraccio) e soprattutto il piccolo Alan S. Kim, la cui spontaneità trapassa qualsiasi confine dell’empatia.
Insomma, Minari ha una fibra armoniosa, rilascia aromi sinceri e ha vibrazioni positive che vanno oltre le problematiche affrontate. Dosa gli ingredienti e si rimbocca le maniche, non snocciola eventi eclatanti fino all’ultimo giro di boa, allestito nel segno della riconciliazione, che avviene nel concreto di quei gesti che valgono più di mille parole e aprono insperati orizzonti.
Particolarmente indicato in questo disgraziato periodo storico per come riordina le priorità, con la salute e l’unione familiare affiancate al primo posto, elevandole al ruolo di stelle polari. L’unica base possibile per rigenerarsi e ripartire.
Terapeutico.
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