Regia di Liz Garbus vedi scheda film
Molti ricorderanno il caso dei femminicidi di Ciudad Juárez, località messicana dove qualche anno fa furono scoperti i resti di oltre trecento donne, uccise in circostanze misteriose e per motivi slegati dalla guerra tra bande per il controllo del mercato della droga. Oltre all'assenza di un mandante, il comune denominatore degli omicidi fu la giovane età delle donne e il movente attribuito ad aggressioni a sfondo sessuale. Fatte le debite distanze, ma restando nell’ambito della cronaca nera, “Lost Girls” di Liz Garbus ripropone su scala ridotta lo stesso scenario, raccontando la storia vera di Mari Gilbert (una ottima Amy Ryan), impegnata a fare luce sulla scomparsa della figlia Shannen, resasi irreperibile nello stesso luogo, una piccola cittadina dello stato di New York, in cui poco dopo vengono ritrovati i cadaveri di altre giovani prostitute.
Forte di una letteratura cinematografica che della narrazione incentrata sulla figura del serial killer ha creato uno dei generi più trasversali possibili, frequentato tanto dal cinema commerciale quanto da quello più autoriale, Liz Garbus compie un'operazione che si pone esattamente nel mezzo dei due modelli. Considerato che “Lost Girls” segnava il debutto al lungometraggio di finzione dopo i precedenti nel documentario che nel 1998 avevano fruttato alla Garbus una nomination all’Oscar per “The Farm: Angola, USA”, c’era da verificare in che modo la propensione per il reale avrebbe fatto i conti con il voyeurismo insito nella materia e con la necessità di un thriller come “Lost Girls” di rispettare le leggi dello spettacolo, dettate, nella fattispecie, dalla necessità di rilanciare la tensione attraverso la moltiplicazione di dubbi, violenza e depistaggi.In questo senso la regista riesce a trovare un compromesso che le consente da un lato la riconoscibilità del prodotto, utile a venire incontro alle aspettative degli appassionati, dall’altro di rispettare le persone coinvolte nella storia, quelle che nella realtà sono state vittime dei fatti raccontati, rimanendo sui binari di una normalità che espone i fatti senza enfatizzarli attraverso immagini a effetto (uccisioni e corpo del reato rimangono doverosamente fuori campo). In questo corrispondendo alla necessità del distributore - leggasi Netflix - di un’offerta che ne rispetti le ambizioni pluralistiche e perciò tale da non “offendere” la sensibilità degli abbonati. In questa maniera a farla da padrone nell’indagine svolta parallelamente dalla madre coraggio e dagli agenti di polizia - capitanati da un Gabriel Byrne a cui spetta il compito di rappresentare l’impotenza di non riuscire a dipanare il mistero nascosto dietro la terribile tragedia - non sono le azioni messe in campo - poche e mal organizzate - ma la cinetica dei sentimenti che scaturisce dai meccanismi di causa-effetto scatenati dalla volontà dei familiari di non arrendersi all’evidenza dei fatti.
Detto che della partita entrano a far parte in almeno due situazioni inserti tratti dai telegiornali d’epoca, utili sopratutto a confermare che quella tratta dal romanzo omonimo del giornalista investigativo Robert Koke non è una sceneggiatura frutto della fantasia degli autori, “Lost Girls” si sviluppa su una tessitura visivo/ concettuale ispirata al modello del primo “True Detective”. Senza raggiungere le stesse vette filosofiche (la protagonista del nostro film appartiene all’America degli umiliati e offesi) il film della Garbus ne ritrova le corrispondenze, facendo dei cieli plumbei e della desolazione paesaggistica tracciata da inquietanti panoramiche il riflesso dei fantasmi che agitano l’animo dei protagonisti. Nessuno dei quali, e qui risiede una delle scelte più forti del film, ha nulla da nascondere, impegnati come sono a testimoniare la cognizione del dolore e l’ineluttabile destino delle sorti umane, come sempre divise tra vittime e carnefici. Buone le prove degli attori scelti con lungimiranza in chiave antidivistica: della Ryan, ancora una volta (dopo “Baby Gone Baby”) alle prese con il personaggio di una madre destinata a perdere la figlia e, in termini di militanza e scorrettezza politica, debitrice della Mildred Hayes di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri", e della “figlia” Thomasin Mckenzie da poco apprezzata in “Jo Jo Rabbit”.Rispetto ad altri presenti nella medesima piattaforma, “Lost Girls” è un prodotto a suo modo rigoroso e apprezzabile per la capacità di rimanere con i piedi per terra.
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)
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